La rappresentazione del paesaggio
tra le due guerre.
“Viene a volte il sospetto che il paesaggio sia un genere più frequentato per motivi di mercato o per motivi di pubblico che non per espressività sua propria. Ma è solo un’impressione” (1). Esordisce così Paolo Fossati nel suo saggio Il paesaggio nel cassetto, analizzando la questione della pittura di paesaggio tra gli anni dieci e gli anni trenta del Novecento, considerata in quel tempo da intellettuali come Soffici e Bontempelli, un genere estraneo ai grandi temi della pittura. Fossati cita poi Adolfo Venturi nel sostenere che nei “quadri di paesi” c’è la simpatia, dove invece manca in quelli di figura: “di fronte ai nostri simili abbiamo perduta la sensibilità, e, soprattutto, l’ingenuità necessaria. Di fronte ad un fenomeno naturale che ci avvinca sentiamo di poterci abbandonare a fantasie sentimenti emozioni, oppure al sogno, e di poterci abbandonare come alla corrente di un fiume di cui ci fidiamo, che non sembra presentare pericoli, anche se non conosciamo lo sbocco. Ma se un essere umano è presente preferiamo restare al di qua o al di là del fiume, piantati su un terreno ben solido” (2).
Augusto Baracchi si avvicina alla rappresentazione paesaggistica a partire dagli insegnamenti del maestro Giuseppe Graziosi, il quale lo introduce, in particolare, alla tecnica dell’incisione. Acquaforte, puntasecca e acquatinta sono le tecniche più utilizzate dal modenese, per riprodurre dapprima paesaggi agresti (debitori appunto dell’insegnamento di Graziosi), monumenti e piazze modenesi, per arrivare a riprodurre diversi luoghi storici italiani. La produzione grafica più nota è quella legata alle cinque partecipazioni dell’artista alla Biennale di Venezia tra il 1922 e il 1938 (3). Del 1922 sono proprio le acqueforti a tema fiumalbino, in cui si percepisce “un impeto, tendente a comporre un’intimità nel silenzio, e una costruzione netta e forte nel segno” (4), mentre di due anni più tardi sono Crepuscolo e Assisi-San Francesco, in cui “Baracchi [ricrea] uno schema nitido e cristallino, una costruzione più chiara per meglio organizzare le sue composizioni” (5). Questa direzione si fa più esplicita negli esiti successivi, in particolare nella serie di incisioni su rame ispirate dai grandi impianti idroelettrici veneti o alla memorabile serie di vedute romane (6) che rispondono alle precise esigenze della strategia del consenso fascista. L’attenzione per il particolare, insieme al sapiente calcolo compositivo, guida l’osservatore attraverso diversi piani di lettura, distinti dall’alternanza del bianco e del nero. I monumenti della città eterna si scorgono in audaci inquadrature e slanci prospettici che rivelano ogni minimo dettaglio del paesaggio. A questo proposito ci viene incontro la riflessione di Bruno Bandini, il quale sottolinea che nel Novecento “il paesaggio si avvia a diventare uno spazio pensato e non solo percepito” descrivendo “due atteggiamenti per certi versi contrapposti, ma entrambi giustificati, ‘esteticamente’: la contemplazione e l’esplorazione. La prima potrà generare prodotti, oggetti artistici improntati a quella malattia della volontà che chiamiamo nostalgia, con le sue icone incerte e sfumate; la seconda tenderà a darci immagini definite, il più possibile nitide” (7).
Se nell’ultimo caso si potrà individuare il Baracchi incisore, allora nel primo troveremo lo stesso artista ma nelle vesti di pittore. I dipinti del modenese, infatti, risultano, al contrario delle incisioni, una sorta di “abbandono emotivo che dimentica i rigori del sostegno grafico e coglie valori tonali che riportano all’esperienza impressionista” (8). Nei suoi dipinti il paesaggio si sfalda in una pennellata libera che rincorre effetti di luce del tutto estranei alla meticolosità dell’incisore. Lo spazio segue ora composizioni piane, compassate, quasi elementari, sacrificando la precisione del dettaglio a favore di vivaci stesure cromatiche (spesso riconoscibili dalla prevalenza di toni rosa e azzurri).
NOTE
(1) P. Fossati, Il Paesaggio nel cassetto. Appunti per gli anni 1910-1930, in C. Cerritelli, P. Fossati, L’arte del paesaggio. Pittura in Italia dal divisionismo all’informale, Ravenna 1991, p. 129.
(2) Ib., p. 132.
(3) Si veda M. Fuoco, Gli artisti modenesi alla Biennale di Venezia 1895-1993, Modena 1993, p. 47.
(4) Ib.
(5) Ib.
(6) Su una produzione di oltre settanta disegni vengono stampate nel 1934 solo cinque acqueforti su carta. Quattro di queste rientrano nella collezione Assicoop Modena & Ferrara (tiratura 5/100).
(7) B. Bandini, Un “fotogramma” alla ricerca di un montaggioin C. Cerritelli, P. Fossati, cit., p. 9.
(8) L. Leonelli Frigieri, Arte modenese tra Otto e Novecento, Modena 1987, p. 28.
(Francesca Mora, 2013)