BARBERINI SILVESTRO

Dagli esercizi sul vero
alla committenza borghese.

Già da tempo la vicenda artistica di Silvestro Barberini è stata posta in parallelo con quella di Gaetano Bellei. Parallelismo inteso non come sostanziale coincidenza di temi e scelte formali, bensì, in senso più lato, come un comune tentativo di importare nel dibattito modenese modelli nuovi, appresi nei soggiorni di studio romani, e di un successivo ripiegamento verso una produzione più tradizionale, nel segno di un marcato adeguamento al conservatorismo della committenza locale. Questa visione conserva certamente una sua validità, tuttavia la figura che meglio si accosta alle vicende artistiche di Silvestro Barberini pare essere piuttosto quella del poco più giovane Eugenio Zampighi, anch’egli come gli altri due vincitore del Pensionato Poletti. Un episodio significativo a tal riguardo è la presentazione dei saggi di pensionato del 1881, che vede esposti uno accanto all’altro il celebre Delirium tremens di Barberini e la copia del San Girolamo del Ribera, presentata da Zampighi. Entrambe le opere dicono di una ricerca verista molto marcata e di una conseguente apertura a modelli formali ancora poco amati in città. Ugualmente severa fu la reazione della commissione giudicante: se Zampighi, che si era mantenuto ben entro i limiti del regolamento, veniva biasimato per non aver scelto “l’originale di un pittore più classico e più simpatico”, ben più forte era la reazione nei confronti del gruppo scultoreo, anche per il forte impatto prodotto dalla crudezza del soggetto: “non risponde pienamente allo scopo dell’arte, che si è di rappresentare, piuttosto, soggetti atti ad istruire e risvegliare sentimenti nobili ed elevati. Una piccola attenuante, come da alcuni viene affermato, potrebbe concedersi all’autore, se nel riprodurre nel suo gruppo le conseguenze necessarie dell’abuso fatale delle bevande alcoliche, avesse avuto in mira di stigmatizzare questo brutto vizio e di dare una salutare lezione a chi avesse tendenza alla deplorevole abitudine. Ma ad ogni modo non è lodevole, che un giovane il quale muove i primi passi nell’arte, scelga temi poco propri alla missione della scultura; si stima perciò necessaria una critica giusta, ma severa per impedire all’artista di abbandonarsi alle stranezze, che non giovano all’arte e persuaderlo a ritornare sulla retta via, studiando con amore l’arte antica, che da secoli è sovrana del bello” (1). Il paragone fra i due artisti continua a mantenere una sua validità anche per gli anni successivi, fermo restando che i segmenti di mercato scelti dai due furono diversi e di conseguenza lo furono anche temi e modelli formali di riferimento. Di Zampighi è ampiamente nota la sovrabbondante produzione di scene del mondo contadino, un mondo decisamente depurato e idealizzato, a tratti fiabesco, composto di famiglie serene e ridenti, e di interni semplici, dal mobilio standardizzato in vario modo componibile. Una produzione semi-industriale, quindi, che in questo senso trova riscontro anche nelle numerosissime commissioni portate avanti da Barberini nei due decenni a cavallo del secolo, in particolare per il Cimitero di San Cataldo (2). Lo scultore aprì una vera e propria impresa, la “Barberini sculture e marmi”, responsabile di numerose realizzazioni in proprio o in associazione con altri artisti locali. Tenendo conto di volta in volta dei gusti della committenza e dei vincoli imposti alle commissioni pubbliche (si pensi ad esempio al primo progetto per la tomba Montecuccoli degli Erri rifiutato per l’assenza di figure allegoriche) è possibile leggere i mutamenti del linguaggio dello scultore: dal verismo delle prime commissioni, come il busto per la tomba Agazzotti (1884) e il monumento Casalia (dopo il 1890), fino alle eleganze e al linearismo in voga a fine secolo, da Barberini utilizzati nella tomba Raisini (1904) e nel monumento a Malatesta (Modena, Palazzo dei Musei). Assai ampio è il ricorso a modelli del passato: la scultura barocca soprattutto, ampiamente dispiegata nella cultura ufficiale del periodo umbertino: nel busto di Paolo Ferrari per la omonima tomba, nel ricorso alla policromia dei differenti marmi nel monumento Raisini, fino all’utilizzo della medesima tipologia femminile per la figura allegorica della tomba Corni (1904) e per l’Ofelia della Raccolta della Provincia (1896). Non mancano poi riferimenti isolati, come testimonia il ricorso a caratteri epigrafici duecenteschi nel monumento Malatesta (1897) (3), che rappresentano un unicum non soltanto per la produzione barberiniana, ma anche per la più ampia cultura modenese fin de siècle. Essi trovano probabile fonte di ispirazione nella celeberrima lastra di Lanfranco posta sull’abside del duomo, rifatta in caratteri gotici proprio a inizio Duecento per iniziativa del massaro Bozzalino. Altro caso singolare è costituito dal monumento funebre voluto dal conte Luigi Alberto Gandini (1904) dove un sarcofago imperiale appare sormontato da una traduzione scultorea della Crocifissione di Guido Reni. Motivi decorativi liberty compaiono infine sul fondo della tomba Chiarli (dopo il 1905) così come nella struttura architettonica del monumento al sindaco Albinelli (Modena, Palazzo comunale) il cui busto fu invece commissionato a Giuseppe Graziosi. Non è questo l’unico caso in cui Barberini collaborò con altri artisti: a più artefici è dovuta ad esempio la tomba Agazzotti, già ricordata, mentre nell’atrio Poletti (la cui commissione risale al 1899, come si evince pure dai documenti recentemente donati al Museo Civico d’Arte) lo scultore si limitò a realizzare il basamento della scultura, commissionata a Carlo Baraldi, e il motivo decorativo fogliaceo, che Barberini riproporrà negli anni successivi anche nel cimitero di San Prospero a Sassuolo (4).

NOTE
(1) ASCMo, Atti di ammnistrazione, 1881, b. 990, Eredità Poletti. Di tutt’altro tenore le reazioni all’opera di Barberini da parte della stampa bolognese, in occasione della mostra nazionale del 1888: “effetto drammatico, senza esagerazione, senza volgarità”, Vico,Pittori e scultori modenesi all’Esposizione di Bologna, in “Il Panaro”, 6 luglio 1888.
(2) L’attività di Barberini per il camposanto modenese è ripercorsa in: P. Storchi, Il Cimitero di S. Cataldo a Modena, tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Rel. A. M. Matteucci, A.A. 1999-2000, pp. 111-131.
(3) Il monumento a Malatesta, in “Il Panaro”, 24 maggio 1897
(4) Sulle sculture del cimitero di San Prospero a Sassuolo si veda: L. Silingardi, «Il dolore confortato dalle memorie». La scultura funeraria, in V. Vandelli (a cura di), Il Cimitero monumentale di San Prospero di Sassuolo, Sassuolo 2008, pp. 52-65, in partic. p. 58-60

(Tomas Fiorini, 2013)