La Bottega Boldini
Nella collezione d’arte di Assicoop Modena&Ferrara è presente un interessante gruppo familiare di metà Ottocento (olio su tela, cm 75 x 60), raffigurante una coppia di sposi con tre figli, all’interno della loro casa borghese. L’uomo è vestito con la divisa della Guardia Nazionale. Proveniente dalla collezione Caselli di Ferrara, il quadro non è firmato ma un antico cartellino incollato sul retro fa riferimento ad Antonio Boldini quale suo autore: e l’indicazione sembra piuttosto probante. Al di là dell’aspetto quasi popolaresco nella resa dei due figli più piccoli (che giocano con il cappello e la sciabola del padre) giungendo a esiti formali vagamente sproporzionati, un’indubbia qualità emerge nelle figure dei genitori e del figlio maggiore, oltreché nei raffinati particolari ambientali del salotto, come i fiori sotto la campana di vetro, la tenda che chiude la composizione, la carta d’Italia preunitaria appesa al muro (forse l’elemento storicamente più significativo). Certo, siamo un po’ lontani dai risultati raggiunti nella Famiglia del Plebiscito da Giovanni Pagliarini (Ferrara, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea), capolavoro negli anni ’60 del genere della conversation pièce a Ferrara, ma la diseguaglianza stilistica dell’opera potrebbe far pensare all’apporto di due mani diverse, come in un’antica “bottega”: ed è risaputo che Antonio Boldini talora si servisse dell’aiuto dei tre figli, tutti pittori (e forse anche di Luigi, al quale insegnò il disegno e che poi svolse attività di architetto).
In realtà, Antonio Boldini fu un buon ritrattista, come rivelano alcune sue immagini conservate presso le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, ma soprattutto fu abile copista di quadri rinascimentali, talora con intenti fraudolenti, in stretta intesa con il sodale antiquario Filippo Pasini, ferrarese ma con negozio a Roma. Eseguite su tavole invecchiate artificialmente, realizzate con uso sapiente di mestiche e vernici “antichizzate”, le opere di Boldini raffigurano soprattutto esemplari dei pittori raffaelleschi o di quelli dell’“officina ferrarese”, a cominciare dall’amatissimo Garofalo, che ingannano ancora oggi gli occhi meno esperti. Basti pensare solo al S. Girolamo nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara, un tempo nella collezione Lombardi, eseguito a imitazione di Girolamo Muziano, ma a lungo considerato opera autografa del maestro cinquecentesco. Oppure alla copia di un quadro del Coltellini (oggi pervenuto in un museo di Baltimora), ugualmente in Pinacoteca e scambiato da qualche critico con l’originale; o alla Santa Filomena nel convento di S. Spirito, ritenuta copia settecentesca di un prototipo cinquecentesco, ma in realtà totale invenzione di Boldini. Camesasca nel 1970 aggiungeva che Antonio fu restauratore e pittore “abbastanza rinomato, specie per i ritratti e le opere di carattere chiesastico; non è da escludere che eseguisse imitazioni, oltre che di Raffaello, di vedutisti veneziani – il Guardi, in particolare (forse provvedeva a smerciarle l’antiquario Filippo Pasini, padrino al battesimo di Giovanni detto Zanin); ciò che testimonia un’abilità ed eleganza di mano per cui non sembra ingiustificato assegnargli talune opere solitamente ascritte alla giovinezza del figlio”. Questo gusto “citazionista” Antonio lo aveva appreso negli anni in cui aveva studiato (dopo i primi insegnamenti alla scuola di Ferrara col Saroli) presso l’Accademia di S. Luca, tra il 1815 e il 1822: era allora assai giovane, essendo nato nel 1799 (non si sa se ad Alfonsine o a Spoleto), al seguito dei genitori, Beatrice e Giuseppe, coinvolti nel turbine delle guerre napoleoniche. Nel fervido ambiente romano della Restaurazione Boldini aveva frequentato Tommaso Minardi, Gaspare Landi, Friedrich Overbeck e iniziato l’attività ritrattistica (si pensi all’effigie del pittore paesaggista Giovanni Monti, nipote del famoso scrittore Vincenzo).
Questo quadro è andato disperso, mentre si conservano, presso le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, quello della madre Beatrice (dall’intensa caratterizzazione psicologica) e del patrigno, il raffinato ebanista Gaetano Federzoni, altrettanto ben caratterizzato, e in una collezione privata di Ferrara quello della piccola Antonietta Scutellari, datato 1824. Talvolta veri e propri ritratti “realistici” appaiono alcune sue immagini di sante a mezzobusto, come la Santa Chiara (Ferrara, chiesa delle Stimmate) e la Santa Veronica Giuliani (Ferrara, convento di S. Maurelio), come pure il più tardo ovale dell’Addolorata nella basilica ferrarese di Santa Maria in Vado.
Dai maestri romani Antonio Boldini aveva però soprattutto assimilato il linguaggio del Purismo, esercitato sullo studio accanito dei raffaelleschi e quindi di Garofalo, una volta tornato a Ferrara, dove sposò Benvenuta Caleffi, avendone ben 13 figli.
Il più famoso resta Giovanni, nato nel 1842, che egli avviò all’esercizio della pittura e assieme al quale eseguì certamente almeno un paio di opere: ad esempio, la Santa Elisabetta d’Ungheria, donata nel 1858 al convento ferrarese di S. Spirito e che due cartellini nel retro attribuiscono sia ad Antonio che all’adolescente, precocissimo figlio Zanin. Altro problema riguarda il dittico su tela raffigurante i coniugi Gioia (già presso la Cassa di Risparmio di Ferrara), datato 1863 e ascritto genericamente a Boldini: intrico inestricabile tra le mani del padre e quelle del ventenne figliolo? Infine, all’olio su tavola con Apollo, Marsia e Re Mida, gustosa scena mitologica acquistata nel 1871 da Giuseppe Cavalieri di Ferrara quale “studio giovanile” di Giovanni e quindi pervenuta alle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, ritenuta copia di un quadro “dossesco”, ma in realtà pastiche eseguito da Giovanni sotto la guida del padre Antonio.
Quest’ultimo riceverà poi un indubbio riconoscimento di prestigio allorché verrà invitato, nel 1861, a partecipare alla “Prima Esposizione Nazionale” che si tenne a Firenze: in questa città Boldini presentò due dipinti, Sacra Famiglia e Adorazione dei Magi e non è da escludere che abbia portato con sé a visitare la città toscana proprio Giovanni, ovvero il più talentuoso dei suoi figli.
Come scrisse un po’ severamente nel 1893 lo Scutellari, suo primo biografo, nelle opere di piccole dimensioni Antonio “consacrò tutta la sua cura. Privo di fervida fantasia, anche nei suoi quadri creduti d’invenzione si scorge sempre la copia dei classici”.
Ma osservando attentamente le sue opere sacre, quali il Martirio di S. Filomena (Ferrara, basilica di S. Francesco), La predicazione di S. Giovanni Battista (Ferrara, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) o la neo-tizianesca Assunta (Parrocchiale di Guarda Ferrarese), esse rivelano una tipica impronta ottocentesca: ritagli e rimontaggi da Garofalo, da Tiziano Vecellio o da Carlo Bononi saranno forse sin troppo evidenti, ma queste composizioni hanno infine un sapore squisitamente neo-guelfo, anche in senso tecnico e stilistico, in una sorta di realismo “sublimato” dal sentimentalismo e dalla più moderna devozionalità. Ciò pur non raggiungendo però gli alti esiti, quasi iperrealisti e para-fotografici, del coevo e più dotato Pagliarini, di cultura austriacante e docente presso la civica scuola d’arte di Ferrara.
Anche senza il timore nei dipinti di sfiorare, anzi di giungere all’oleografia, Boldini padre cura soprattutto il ductus grafico, tanto è vero che tra le sue opere più famose restano imprese illustrative di grande impegno, come i ritratti che costellano l’edizione postuma delle Vite de’ pittori e scultori ferraresi di Girolamo Baruffaldi (1844-46, in due tomi) e le tavole di un album dell’ingegner Borsari (1842) sulla riscoperta degli affreschi di Schifanoia, riapparsi da poco sotto l’intonaco. E proprio le nozioni del disegno dovette soprattutto impartire ai figli, a cominciare da Giovanni per finire a Luigi, classe 1832, il quale non a caso divenne poi ingegnere, ricostruendo fantasiosamente il Palazzo Comunale di Copparo (sulle tracce di una “delizia” estense) ed emigrando poi in Australia. Circa le opere eseguite assieme ai figli, è da supporre che sul bozzetto delineato del padre, essi intervenissero realizzando lo sfondo o particolari minori.
Giovanni, comunque, non dovette sentirsi particolarmente appagato dal segno diligente e dal colorito un po’ “secco” del padre, tanto che secondo la tradizione avrebbe bazzicato anche le aule della civica scuola d’arte di Ferrara, seguendo gli insegnamenti di Pagliarini e dei due Domenichini, Gaetano e Girolamo, impegnati contemporaneamente nella decorazione del Teatro Comunale della ex città estense. Poi deciderà di emigrare a Firenze, città forse conosciuta nel corso della mostra del 1861, dove frequenterà i giovani maestri della pittura macchiaiola e il critico Diego Martelli, decidendo quindi di trasferirsi a Parigi nel 1871, divenendo forse il ritrattista più significativo tra Otto e Novecento: ma questa è storia ampiamente risaputa. Meno nota è la vicenda degli altri due fratelli pittori, educati pure essi nella bottega familiare: Giuseppe, nato nel 1839, e Pietro Boldini, ultimogenito della prolifica famiglia, classe 1852. Soprattutto lo fu il primo, che fu pittore e scultore, partecipando al Premio “Vidoni” bandito dal Comune di Ferrara nel 1868, del quale si conoscono disegni, acquerelli e, forse, un olio presso le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, ovvero quel bel Ritratto del tenente Lolli del ‘67 firmato G. Boldini e da qualcuno tolto a Giovanni. La firma non è necessariamente apocrifa, come hanno rivelato indagini varie e potrebbe quindi spettare al più vecchio Giuseppe, nel momento in cui egli si svincolò degli insegnamenti del padre, per seguire più moderni stilemi, magari filtrati da quelli appresi dal fratello nella Firenze macchiaiola. Giuseppe Boldini fu anche ripreso in abiti orientali nel 1862 in un acquerello dal talentuoso germano, il quale nel suo periodo ferrarese – seguendo gli insegnamenti del padre – molto praticava l’esercizio grafico, sia copiando gli antichi maestri (gli affreschi di Schifanoia, il S. Giorgio di Dosso Dossi) che schizzando a matita i primi trepidi ritrattini (le nobili sorelle Prosperi, Imelda, Adelaide e Ferruccio Pasini e così via). L’altro artista della numerosa famiglia, il piccolo Pietro Boldini, pur essendosi specializzato, dopo aver ricevuto le prime nozioni paterne, nella civica scuola d’arte di Ferrara, seguendo i corsi di Plastica e di Figura non gode di buona fama. Bartolini giudicò il suo dipinto Il cortile del 1874 (Ferrara, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea), opera dalle “figure goffe e incerte nel disegno”, specie se confrontato col Cortile della casa paterna, ovvero un’analoga composizione giovanile del fratello Giovanni. E i suoi due piccoli dipinti a olio che descrivono scenette di vita della famiglia Boldini (databili attorno al 1878, sono conservati entrambi nei depositi delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) sono di ben scarso livello artistico, giungendo a un vero e proprio sapore caricaturale, quasi sgangherato. Dopo la morte di Antonio Boldini, avvenuta a Ferrara nel luglio 1872, la factory Boldini si sfalda del tutto: Luigi emigra nel 1873 in Australia per fare l’architetto, Giuseppe si trasferisce a Roma assieme alla sorella Maria (e di loro si perderanno le tracce), nel 1879 Pietro va a vivere a Siena, con le sorelle Carlotta e Veronica.
Allorché Giovanni Boldini, ormai ottuagenario, detterà le proprie memorie alla giornalista Emilia Cardona (che sposerà in extremis) non ricorderà in alcun modo i fratelli artisti e confesserà – in una sorta di gioco menzognero, alla Orson Welles – che il padre Antonio non incoraggiò assolutamente la sua vocazione artistica, poiché non “voleva facesse la fame”, come lui. Salvo poi descrivere con affetto e ammirazione il suo laboratorio, le polveri in vesciche di porco appese al soffitto, la sua cura nel fare i colori mescolando le polveri all’olio di noce finissimo, che amalgamava col pestello nel mortaio, ma rivelando anche i trucchi fraudolenti escogitati col Pasini. Come allorché eseguì una Madonna col Bambino in stile rinascimentale, la gettò nel cortile, dove fu beccata da polli e tacchini e quindi rincollata e “trattata”, risultando “veramente vecchia di trecento anni”. Non rivela poi in alcun modo che lui e i suoi fratelli eseguirono i loro primi ritratti sotto la sua guida diretta e che aiutarono Antonio nell’esecuzione di copie e rifacimenti dai pittori antichi, segnatamente estensi, per aiutarlo a smaltire le numerose committenze: e quindi risulta quanto mai difficile per noi ricostruire l’attività della Bottega Boldini, attiva a Ferrara a metà Ottocento e che ebbe clienti in tutta Italia, grazie all’opera di un disinvolto mercante come Filippo Pasini, ossia il padrino di colui che diventerà il più grande ritrattista della Belle Epoque.
Riferimenti bibliografici: Scutellari 1893; Cardona 1951; Camesasca 1970; Savonuzzi 1971; Bartolini 1981; Scardino 1989; Torresi 1995, pp. 7173; Agostini – Scardino 1997; Buzzoni – Toffanello1997; Scardino – Torresi 1999; Doria 2000; Dini – Dini 2002; Scardino 2011.
Lucio Scardino (2019)