Una dimensione planare.
L’essenza poetica di Carlo Cremaschi si può rintracciare nell’opera Lavagna (1969), non solo perché si tratta di un paradigma, un modello che permea ogni sua realizzazione, ma anche perché costituisce una vera e propria dichiarazione di intenti: la ricerca dell’artista di un costante e determinato confronto con lo spazio a due dimensioni di cui essa è simbolo.
Un quadrato metallico, sorretto da un piede agganciato sui due lati, come una lavagna tradizionale appunto, contiene uno spazio vuoto, suddiviso in centoundici piccoli quadrati, uguali e simmetrici, generati dall’incrocio di dieci fili bianchi orizzontali con altrettanti fili verticali. Cremaschi ne parla in questi termini: “Una struttura semplice, immobile e atemporale: la lavagna è vuota, è un limite. Chi sta da una delle due parti guarda la vita dentro i limiti del riquadro”. (1)
In sostanza, quest’opera è un reticolo che scandisce la realtà, campionandola in uno spazio discreto e bidimensionale; un filtro, uno schermo che rende misurabile il mondo circostante, ingabbiandolo in una sorta di riproposizione del piano cartesiano. Mario Bertoni, nel 1989 sostiene che “dietro la Lavagna c’è tutto, e tutto è in qualche modo concetto; ma nella riduzione è presente (con un senso di stupore) la coscienza del fatto che vedere il mondo attraverso uno schermo non assolve ciascuno dalla propria coscienza”. (2)
Cremaschi eleva lo schermo-Lavagna a “forma simbolica” del nostro tempo: delimita una realtà “altra” rispetto alla quale – se pensiamo alla tecnologia digitale – l’uomo contemporaneo si interfaccia quotidianamente, senza poterla penetrare, ma solamente scorrere, navigare, rimanendone comunque estraneo. Ecco allora che lo spazio presentato dall’artista, diviene una porta, o meglio una finestra, per osservare un mondo diverso dal nostro, un “altro” mondo, dal quale siamo separati per mezzo di uno schermo.
Opere e installazioni degli anni sessanta, come Vela, Perimetro o Linea prototipo, ci parlano di un universo geometrico, grafico, guidato dagli assi X e Y, che Cremaschi predilige e non abbandona mai (3). Esaurita l’influenza delle “strutture primarie”, a partire dal 1972 l’artista torna ai mezzi tradizionali. Questa svolta implosiva permette proprio a quell’universo di palesarsi nella forma del dipinto. L’artista vuole dominare quel piano, come in Pista (1973), una delle ultime acquisizioni Assicoop, dove una linea continua e convulsa traccia un percorso spiraliforme. Quella che dovrebbe essere la rappresentazione di una pista per il gioco delle biglie, diventa un’azione frenetica per arginare o in qualche modo definire quell’area priva di sfondamenti prospettici. Anche le tele coeve, dal sapore metafisico, vanno nella stessa direzione. Qui la figurazione è affidata a pochi soggetti: l’autoritratto, la lavagna, il cartellone pubblicitario, mucchi di sassi e un’oca (definita da Cremaschi “cavallo di Troia della storia”). Queste immagini abitano lo spazio della tela galleggiando su piatte stesure di colore, fasce orizzontali che non si discostano dal consueto reticolo: la singola linea che attraversa Autoritratto al lavoro o La prima comunione (Autoritratto con lavagna) (entrambi del 1977), è forse l’ingrandimento di un’asse delle ascisse? Come non ritrovarla diversi anni dopo nel profilato di ferro di Air Terminal (1990)?
Con l’adozione dei polimaterici, negli anni ottanta l’artista continua il suo confronto con l’ontologia della superficie: apparentemente lontani dalle opere precedenti, in verità i polimaterici trattano in maniera diversa sempre lo stesso spazio, ora riempito, imbottito di materia ostruente di derivazione “schwittersiana”. Mario Bertoni capisce che nelle opere di Cremaschi “la superficie come istituzione torna ad essere trattata come superficie, dunque incollata, graffiata, disegnata, inchiodata, dipinta, plasmata, persino trasformata in una superficie riflettente; così essa invoca mutamento, così invoca l’oggetto” (4).
Cremaschi, attraverso il suo lavoro, mira all’unione fatale tra due mondi: la realtà tangibile del quotidiano e quella astratta, o meglio “astraente”, di Lavagna. Di questo ci parlano in modo esplicito le opere degli anni Duemila, come Io (2000), Autodafè (2002) o Il resto di niente (2008), in cui l’artista pone sé stesso, nella forma dell’autoritratto, in rapporto con quella soglia, nel tentativo estremo di creare un dialogo tra due mondi ancora distinti.
NOTE
(1) C. Cremaschi, “Piccole Avanguardie”, quasi autobiografia, in C. Cremaschi, F. Piccinini, L. Rivi, Trapassato futuro. Carlo Cremaschi in museo, Modena 2008, p. 17.
(2) M. Fuoco, Gli artisti modenesi alla Biennale di Venezia, 1895-1993, Modena 1993, p. 113.
(3) Il metodo severo insieme all’attitudine grafico-geometrica derivano anche dal lavoro come disegnatore presso lo studio dell’architetto e designer Cesare Leonardi, svolto dal 1967 al 1969.
(4) M. Bertoni, Prefazione, in M. Bertoni (a cura di), Carlo Cremaschi. Concrezioni, Comune di Modena, Assessorato alla cultura, Galleria civica 1981, p. 4.
(Francesca Mora, 2013)