Tra Firenze e Parigi, “il salto vitale” nei ricordi di Ardengo Soffici.
Nella cartolina scritta da Parigi a Ersilia Crespellani, il sei aprile 1903, Giuseppe Graziosi aveva modo di esprimere tutta la meraviglia e tutto lo sconcerto che stava suscitando in lui la grande città francese: “L’impressione tremenda che m’ha fatto Parigi mi ha impedito di poterle mandare subito almeno una cartolina. Sono stato sbattuto da una parte all’altra senza poter connettere più nulla con una testa cresciuta dieci volte di più e solamente ora incomincio raccapezzarmi un pochino […] Mi pare d’essere venuto in una gabbia di matti! Tutti corrono tutti saltano tutti urlano senza sapere che cosa fanno…”. Gli anni precedenti avevano visto Graziosi lasciare il piccolo paese di Savignano per Modena, raggiungere Firenze e poi, per il servizio militare, arrivare a Roma. Ma Parigi, a quelle date la metropoli europea per eccellenza, non poteva che risultare decisamente altra cosa. La nuova dimensione della folla con i suoi corrispondenti tanti possibili luoghi di ritrovo, le tante vetrine con le sempre nuove strategie e i nuovi centri commerciali avevano trasformato Parigi, nel corso del secondo Ottocento, in qualcosa di particolare. Le arti, qui più che altrove, si interrogavano sul modo migliore per rimanere al passo con tale situazione, e la pittura si sforzava di rappresentare la modernità in modo a sua volta moderno (1). Al riscontro della frenesia parigina si accompagnava l’inevitabile rilievo sui tanti stimoli offerti dal vivace ambiente culturale, non ultime le tante riviste che potevano dare da lavorare a disegnatori e caricaturisti. Un mese dopo, in un’altra cartolina, Graziosi aveva modo di rassicurare Ersilia Crespellani della propria capacità di discernimento rispetto alle tante, non tutte ugualmente apprezzabili novità della capitale francese: “Studio molto, specialmente i classici, l’entusiasmo grande per i moderni che conosco da vicino passa e resta grande solo Millet e Rodin”. Trovava così già conferma un certo equilibrio fra rispetto della tradizione e interesse alle novità del periodo, la prima da intendere quale imprescindibile riferimento per ogni possibile azione artistica. E se il riconoscimento di Millet sembrava valere più in termini generali, per condivisione di un certo modo di guardare al rapporto tra uomo e natura, i debiti nei confronti di Rodin potevano definirsi in modo più specifico, come riscontrabile del resto per diversi altri artisti italiani nel corso del Novecento. (2)
Sono già state più volte considerate le poche testimonianze sul soggiorno parigino di Graziosi; prime fra tutte, quelle di Ardengo Soffici, protagonista dell’arte italiana del primo Novecento, tra i principali promotori nei primi decenni del secolo di una faticosa azione di aggiornamento dell’arte italiana nei confronti della cultura francese. Amico di sempre di Graziosi, vent’anni dopo la morte di questi Soffici si sarebbe fatto promotore di una mostra a lui dedicata nel fiorentino Palazzo Strozzi. In quell’occasione avrebbe scritto un sentito ricordo, ritornando alla comune origine paesana, alla loro frequentazione della Scuola del Nudo all’Accademia di Firenze, al sodalizio formatosi con Giovanni Costetti, Armando Spadini, Cesare Vinzio, Valmore Gemignani, alla condivisione di uno studio in via degli Oricellari, alle burle e ai divertimenti tra una trattoria di Borgo Pitti e il caffè Gambrinus (3).
Quello della comune Boheme fiorentina era il tempo, aveva già in precedenza scritto Soffici, “in cui tutti noi giovani eravamo sotto l’influenza delle varie scuole facenti capo, insieme, a Segantini, a Boecklin ed ai preraffaelliti”. Anche per Soffici, come per Graziosi, la pittura di Millet era da studiare con particolare attenzione, pure dovendosi accontentare a fine secolo di quello che le fotografie in bianco e nero delle riviste potevano raccontare. Veniva probabilmente anche da una condivisione con Soffici la dichiarazione di Graziosi del 1903 a favore del pittore realista francese. Nelle sue memorie Soffici avrebbe precisato i motivi dell’amore per Millet, nell’inevitabile intreccio tra reali istanze giovanili e riflessioni a posteriori, frutto dei successivi cinquant’anni di attività artistica e culturale (4). Per l’ormai anziano Soffici (inevitabilmente guidato a metà Novecento da cinquant’anni di diversificate esperienze), Millet era da studiare “per quella sua austerità di stile e di sentimento, poi per l’audacia con cui trattava forma e disegno, pur restando, in qualche modo, aderente all’ordine classico. Ma più che altro mi appagava la sua opera per i soggetti ch’egli trattava, quasi sempre popolari, campagnoli, georgici, per i quali anch’io avevo una spiccata predilezione; senza dir dello spirito che quel pittore vi metteva, tutto spontaneo, poetico, germinale, fortemente aderente alle cose ed alla viva natura”. (5)
A fianco degli interessi culturali Soffici aveva modo di ricordare l’allegra vita del gruppo di amici, tra la Scuola di Nudo in Accademia e lo studio di via Rucellai: “Si era data in quell’anno la Bohème del Puccini, la quale aveva portato molti alla lettura del libro del Murger che ne aveva fornito il soggetto, e molto di quello spirito strambo, zingaresco, pittorescamente spregiudicato, si era diffuso fra la gioventù italiana del tempo, e, com’è naturale, anche tra la nostra brigata, che di quei facili eroi del teatro e del libro aveva adottato, oltre che il modo di vestire, con i capelli a larghe falde sulle zazzere prolisse, le cravatte sgargianti e le ghette, le stesse maniere e ostentazioni bizzarre e buffonesche. Vinzio e Graziosi erano i più attivi rappresentanti di tale specie boemesca, e quindi i maggiori suscitatori di chiassate e putiferi, a cui Costetti ed io non facevamo il più delle volte che tener bordone” (6). Soffici ricordava in particolare di Graziosi le esibizioni canore “da caffè concerto” (“aveva una bella voce di tenorino, intonatissima, e insieme un vero talento comico, improvvisava nello studio ‘numeri’ da caffè concerto, dove il canto e la mimica avevano del magistrale e ci divertivano straordinariamente, facendo sbellicar tutti dalle risa” (7). Durante le riunioni al caffè Gambrinus, ricordava poi Soffici, era nella carta a disposizione nel locale che aveva avuto modo di scrivere “per l’amico Graziosi più e più lettere ad un suo protettore modenese, accomodate in modo da fargli ogni volta sciogliere i cordoni della borsa, tanto erano eloquenti e persuasive. Graziosi, uomo di poche lettere ricorreva a me – come già il rappresentante Lurchi – per questa delicata bisogna, contentandosi, egli, di spronarmi ad esser sempre più insinuante e stringente, a metterci tutta la mia arte; e quando l’effetto era raggiunto pagava lui il mio caffè” (8). Poi anche per Soffici e compagni, tra studi sui maestri del divisionismo italiano e letture varie, tra Pascoli e Fucini, si sarebbe fatto sempre più forte e insistente il richiamo di Parigi. Delle meraviglie della città francese scrivevano le riviste e parlavano coloro che già ci erano stati. Il richiamo, almeno per Soffici come per gli amici Umberto Brunelleschi e Giovanni Costetti sarebbe risultato irresistibile con il nuovo secolo, dato fra l’altro l’ulteriore stimolo dell’inaugurazione nel 1900 dell’Esposizione universale. Graziosi li avrebbe raggiunti un paio di anni dopo, ma a quell’esposizione parigina sarebbe stato presente con una sua opera, Il Fonditore, premiata con una medaglia di bronzo (9). Nei ricordi di Soffici: “Al tempo in cui parlo arrivò a Parigi l’amico Giuseppe Graziosi e insieme a lui il pittore Pio Semeghini, che io non conoscevo ancora, più un altro scultore, tale Lugli; tutt’e tre di Modena o di quelle parti. I due scultori venivano per collocar certi loro lavori presso non so qual mercante d’arte; Semeghini per istudio e per allargare le sue cognizioni d’arte antica e moderna, e soprattutto, credo, per rendersi conto direttamente di ciò che fossero in realtà l’Impressionismo e le ultime scuole di pittura nate dopo di esso in Francia”. (10)
Nelle memorie parigine Graziosi è ricordato tra l’altro per l’episodio della fuga dal piccolo albergo, l’Hotel Cluny, che il gruppo di amici non era più in grado di pagare, già tutti quanti insolventi per parecchi mesi arretrati. Tra farsa e dramma il gruppo di artisti si sarebbe allontanato dall’edificio indossando a più strati tutti gli abiti del guardaroba, nascondendo inoltre tra i vestiti qualche suppellettile, per non destare facili sospetti con visibilissime valigie o con voluminosi pacchi. (11)
NOTE
(1) Per il tema di Parigi quale capitale europea della modernità nel secondo Ottocento si veda ad esempio M. M. Lamberti, Mitografie parigine nel secondo Ottocento, in De Nittis e la pittura della vita moderna in Europa, catalogo della mostra, Torino 2002, pp. 39-55.
(2) F. Fergonzi Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 1, in “Prospettiva”, 89-90, gennaio-aprile 1998, pp. 40-73. In generale, su Graziosi, recentemente F. Petrucci, Profilo di Giuseppe Graziosi, in M. Canova e F. Piccinini (a cura di), Museo Civico d’Arte. Il Fondo Giuseppe Graziosi, Modena 2007, pp. 11-26. Trascrizione parziale della corrispondenza di Graziosi in G. Guandalini (a cura di) La Gipsoteca Giuseppe Graziosi, Modena 1984, pp. 90-92.
(3) A. Soffici, Giuseppe Graziosi pittore, in Mostra delle opere di Giuseppe Graziosi nel Ventennio della sua morte, Palazzo Strozzi, Firenze 1963, p. 7.
(4) Sul Soffici francese e sul modo di intendere gli scritti autobiografici di Soffici quali fonti storiografiche sul periodo del primo Novecento si veda il classico testo di M. Richter, La formazione francese di Ardengo Soffici 1900-1914, Milano 1969.
(5) A. Soffici, Il salto vitale. Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo. III Giovinezza, Firenze 1954, p. 78.
(6) Ivi, pp. 81-82
(7) Ivi, p. 82.
(8) Ivi, p. 86.
(9) Si vedano ad esempio Guandalini cit. e Petrucci cit.
(10) Soffici, Il salto… cit., pp. 409-413.
(11) Ivi, pp 426-28. Il medesimo episodio è ricordato anche da Umberto Brunelleschi in Da Montemurlo a Parigi. Memorie di Umberto Brunelleschi, Prato, 1990.
(Luciano Rivi, 2013)