VELLANI MARCHI MARIO

Pittura in palcoscenico.

Il 1924 è un anno importante per Mario Vellani Marchi: coincide con la sua prima esposizione alla Biennale di Venezia e con la scoperta definitiva di Burano (1); è inoltre l’anno in cui frequenta assiduamente Milano, dove entra in contatto con gli artisti di Novecento, gravitanti intorno alla critica d’arte Margherita Sarfatti, all’insegna del recupero dei maestri della tradizione pittorica e di un comune “rifiuto dell’avanguardia”. È in questo clima che Vellani Marchi inaugura la propria attività di scenografo – che svolgerà in proprio solo a partire dal 1938. Nel 1924, infatti, il pittore triestino Pieretto Bianco lo chiama a collaborare, nelle vesti di aiutante, per un allestimento al Teatro alla Scala, dando avvio alla sua florida produzione di scene per il teatro milanese.
Parlare esclusivamente di scene, in realtà, è riduttivo. Con Pittura in palcoscenico, una personale dichiarazione d’intenti pubblicata sulla rivista “Le Arti Belle” nel luglio del 1947, Vellani Marchi elabora vent’anni più tardi la propria idea di scenografia, rispondente alla sintesi del “tutto dipinto”. Secondo il modenese “il pittore sogna di vedere il suo bozzetto ingrandito in un ‘quadro scenico’ fuso in un’armonia tonale che risponda alla fantasia coloristica del suo concetto creativo. Ecco perché il pittore vorrebbe che ‘tutto’ si potesse dipingere”; e continua: “nulla deve essere trascurato perché il ‘quadro scenico’ appaia allo spettatore di un’assoluta intonazione generale. Questo è il problema principale da risolvere” (2). Con queste parole, l’artista lascia intendere che tutti gli elementi della scena, ovvero i fondali, le quinte, i siparietti, i costumi e perfino le movenze degli attori debbano concorrere ad uno spettacolo visivo unico, in piena sintonia con l’opera rappresentata. Un’unità che l’artista riassume nella concezione del “quadro scenico”: “occorre, una volta studiato per bene il libretto ed ascoltata la musica, esprimersi molto chiaramente, ed essere semplici nel concepire l’architettura della scena; larghe masse tonali ben distribuite ed armonizzate tra loro debbono formare quell’assieme di linee, di ritmi e di colori che io definisco «quadro scenico»”. Con questo proposito il regista “dovrebbe saper adoperare i toni dei costumi dei principali personaggi e delle masse corali come un complemento necessario all’assieme ideale della scena” (3). Secondo Gian Alberto Dell’Acqua, curatore della mostra di bozzetti teatrali I Vellani Marchi del Teatro alla Scala, tenuta nel ridotto dei palchi nel 1989, nel progettare i suoi quadri scenici l’artista si preoccupa di definire con assoluta precisione ogni minimo particolare, “lo dimostrano le annotazioni in margine ai bozzetti dei costumi, sulla scala cromatica alla quale accordarli, la qualità dei tessuti da usare, le rispondenze di colore e di materia tra le vesti dei vari personaggi, studiati uno per uno nei loro aspetti fisici psicologici e spesso intenzionalmente ‘caricati’” (4). Vellani Marchi dimostra di saper adattare i propri bozzetti per opere musicali che vanno dal Settecento al Novecento (5), influenzati, bisogna dirlo, anche dall’eclettismo dello scenografo Nicola Benois, con il quale l’artista lavora più volte. Il suo operare non mira a soluzioni innovatrici, ma piuttosto a costruire belle scene e fantasiosi fondali, in stretta coerenza con i testi musicali rappresentati. Riprende il pittore: “quando il velario si apre, allo spettatore deve apparire finalmente una visione assolutamente armonica, fusa, intonata e per nulla disturbata da elementi estranei alla pittura; lo spettatore deve trovarsi davanti a una ‘orchestrazione pittorica’ che nulla abbia ad invidiare a quella musicale”. Lo stesso direttore dell’allestimento scenico “deve possedere assolutamente la delicata sensibilità del pittore, essere lui stesso pittore e scenografo, deve essere insomma il concertatore di quell’orchestra formata dal pittore-bozzettista e costumista, dal regista, dal capo macchinista e delle luci, da tutti gli elementi che attorno a lui operano con passione e di comune accordo per creare quel mondo d’arte e di fantasia che è una scena. Deve essere in palcoscenico quello che è, nel ‘golfo mistico’, il direttore di orchestra” (6).

NOTE
(1) Sarà Pio Semeghini ad accompagnare Vellani Marchi a Burano; vi conoscerà la vedova di Umberto Moggioli, nella cui casa si ritroveranno di lì in avanti gli artisti della cosiddetta “Scuola di Burano”.
(2) M. Vellani Marchi, Pittura sul palcoscenico, in G. A. Dell’Acqua (a cura di), I Vellani Marchi del Teatro alla Scala, Milano 1989, p. 41.
(3) Ib. p. 42.
(4) G. A. Dell’Acqua, Vellani Marchi: pittura, disegno, scena, in G. A. Dell’Acqua cit., p. 27.
(5) Il vasto repertorio di scenografo per la Scala comprende le opere Mahit di R. Pick Mangiagalli (1938), Falstaff di G. Verdi (1942), L’Oro di I. Pizzetti (1947), Regina Uliva di G.C. Sanzogno (1949), La Giara di A. Casella (1949), Il Campiello di E. Wolf Ferrari (1950), Lodoïska di L. Cherubini (1950), Shéhérazade di N. Rimskij-Korsakov (1950), fino a I Quattro Rusteghi di Wolf Ferrari (1954), L’Elisir d’amore di G. Donizzetti (1957) e Coppélia di Delibes (1961).
(6) M. Vellani Marchi cit., p. 44.

(Francesca Mora, 2013)