BONZAGNI AROLDO

Cento (Ferrara), 1887 – Milano, 1918

Aroldo Bonzagni nasce a Cento di Ferrara il 24 settembre del 1887 da Felice e Angela Gilli. La sua giovinezza si svolge in un ambiente particolarmente vivace di vita locale. Vengono scritti a Cento, solo per fare un esempio, i romanzi più importanti di Maria Majocchi Plattis, Jolanda, un’autrice che occupò un posto di rilievo all’inizio del Novecento. E proprio Jolanda, la marchesa protofemminista, diventa amica e sostenitrice di Bonzagni.
La spinta decisiva per la sua carriera artistica gli viene però da Marcello Mallarini, professore di disegno nelle pubbliche scuole professionali. Nel 1903 Bonzagni si trasferisce, con la famiglia, a Milano, dove si iscrive all’Accademia di Brera. Segue così i corsi di pittura di Cesare Tallone, mentre, per la prospettiva, gli sono maestri Giuseppe Mentessi e Achille Cattaneo. A Milano frequenta, quali compagni di studio, Carlo Carrà, Achille Funi, Aldo Carpi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci e Carlo Erba.
Proprio Carlo Carrà lo ricorda “tra gli allievi più eleganti di Brera”, abituato a servirsi da un ottimo sarto, cui regalava piccoli lavori a guazzo fatti “alla maniera di Anglada, pittore allora di moda in Italia. Le cocottes fornivano a Bonzagni gli argomenti più attraenti procurandogli presto buon nome fra la gente mondana e nell’ambiente degli artisti milanesi; lui, del resto, per la vivacità del carattere attirava simpatia. Per quanto le aspirazioni fossero differenti la nostra amicizia non si estinse col compimento degli studi accademici anzi accrebbe negli anni che seguirono”.
Sono i tempi briosi d’inizio secolo, tra miseria e speranze, in una Milano brulicante di artisti. È in questo periodo che matura l’approccio iniziale di Aroldo con la pittura, attraverso lo studio della figura e della fisionomia, fondamenti basilari che apprende ai corsi di Cesare Tallone, all’Accademia di Brera a Milano: fin da subito il giovane centese dimostra di essere un critico osservatore dei sentimenti umani, riuscendo a individuare, e successivamente a trasferire in modo analitico, sulla tela, la dimensione espressiva dei suoi personaggi. A tale riguardo si osservino il Ritratto della madre (1909), i coevi Autoritratto giovanile (1905) e Ritratto della sorella e si consideri, fin da ora, la precoce presa di distanza dalle dissociazioni cromatiche dei divisionisti.
Nella metropoli lombarda l’autore diventa amico di Umberto Boccioni, con cui firma, appunto, nel 1910, insieme a Carrà, Luigi Russolo e Romolo Romani il primo Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910) nell’edizione su volantino stampata dalla rivista “Poesia” di Filippo Tommaso Marinetti. Con gli altri firmatari partecipa anche alla serata dell’8 marzo 1910 al politeama Chiarelli di Torino, nonché – secondo la testimonianza di Marinetti – alla manifestazione contro “Venezia passatista” dell’8 luglio 1910.
Dunque nei primi mesi del 1910 Bonzagni è presente a quasi a tutte le riunioni del gruppo futurista senza però voler apporre il suo nome nel Manifesto tecnico della pittura futurista (quello dell’11 aprile 1910). Dopo il manifesto si tratta infatti di delineare una nuova pittura che giustifichi l’assalto alla tradizione e che tenga il passo con le dichiarazioni di principio. È così che Aroldo si allontana (come ha fatto l’amico Romolo Romani) dal gruppo futurista dove viene sostituito da Giacomo Balla. Le sue perplessità originano soprattutto dall’impronta divisionista: non accetta Bonzagni la coerenza richiesta dal Futurismo, da un gruppo di artisti che vogliono imporre l’adozione della tecnica della scomposizione dei colori, l’uso dei complementari accostati per generare contrasti cromatici accesi. Non accetta la pratica di una pennellata direzionale che talvolta ondeggia e si avvolge su sé stessa, che diventa filamento arabescato, intreccio complesso di luce e colore; e nemmeno gradisce il principio di comporre e ricomporre le forme plastiche. Bonzagni non ha soverchie esitazioni: è fondamentalmente un post scapigliato, permeabile agli influssi espressionistici delle Secessioni europee e alle sirene fauves. Continua così per la sua strada eroica e solitaria, nel tentativo di accreditarsi come il cantore della Belle  Époque milanese. Aroldo osserva le piume sui vestiti eleganti delle donne, i volti accigliati coi monocoli, gli uomini coi cilindri e coi bastoni, i riti del teatro, le uscite dalla Scala, i veglioni e le piccole e grandi mondanità, i tram, la folla nelle piazze e i treni che sfrecciano cantando la modernità. Se esistono ruoli che a lui si attagliano, nel manifesto futurista, sono quelli che rimandano alla “frenetica attività delle capitali”, “alla psicologia nuovissima del nottambulismo”, “alla figura febbrile del viveur, della cocotte, dell’apache, dell’alcolizzato”. Gli stessi soggetti citati vengono consapevolmente trattati anche in tutta la sua attività satirica e illustrativa, quella che sviluppa, in modo pressoché costante, nella sua breve esistenza.
I suoi anni giovanili sono anche anni difficili, che lo costringono a dedicare molto tempo a lavori commerciali (figurini, illustrazioni, caricature, immagini sacre, copie di dipinti celebri, decorazioni) e che lo inducono ad accettare, nel 1910, l’invito del modenese Claudio San Donnino (Sandonnini) a decorare la sua villa (ora villa Lonardi) a San Donnino della Nizzola, alle porte di Modena. Ivi l’artista risiede quasi permanentemente (salvo viaggi a Milano e a Cento) fino alla fine del 1911, eseguendo dipinti di vario genere all’interno e sulle pareti esterne.
È il fascino della Belle Époque a dominare ora i suoi interessi, mentre uno stile che occhieggia un realismo spigliato si coniuga con qualche accento sempre più fauve. La Macchina in corsa (ca. 1911-1912) oppure Locomotiva in corsa (ca. 1911-1912), sfrecciano con tematiche legate alla temperie futurista, senza però che Bonzagni ne adotti, appunto, le caratteristiche di stile: l’autore prosegue il suo percorso lungo una strada più autonoma. Nel 1912 partecipa all’Esposizione dei Rifiutati a palazzo Cova, è presente all’XI Biennale di Venezia e, nel 1913, alla Mostra della caricatura a Bergamo, nella quale espone una serie dei grandi cartelloni satirici, di soggetto soprattutto politico, quelli che settimanalmente ha presentato per oltre un anno, tra il 1912 e il 1913, tra due vetrine di una sartoria nei pressi di piazza Cordusio a Milano.
Bonzagni si rende dunque interprete della mondanità, così come delle contraddizioni del periodo. Ha le caratteristiche di giovane dandy quando, nel 1914, si imbarca su un transatlantico diretto a Buenos Aires, viaggia in prima classe, ostentando abiti alla moda e tutta l’eccentricità di un pittore ispirato. Eppure Bonzagni è anche socialista, attento alle dinamiche di classe, agli umili e ai reietti. Chiusa la parentesi argentina, nel 1915 l’artista ritorna a Milano e si presenta al pubblico con una mostra al palazzo delle Aste.
Il suo linguaggio intanto si fa più maturo, quello che osserviamo nella folla che si accalca Ai giardini pubblici (Raccolta Assicoop Modena&Ferrara). L’arte che diventa presa diretta sulla vita non è del resto prerogativa esclusiva della poetica futurista: Bonzagni sa esattamente dove dirigersi, è consapevole che la rappresentazione della vita moderna è radicata nel fugace, nel veloce cambiamento della metamorfosi quotidiana delle cose, sa che tutto ciò si deve tradurre in una tecnica in cui una pari velocità di esecuzione trascriva la sua visione del mondo. Eppure c’è qualche centimetro in più sull’asticella artistica del pittore, che supera e va oltre l’equivoco che ancora lega la concezione dell’arte all’imitazione naturalistica della realtà. Ai giardini pubblici i colori accesi sono usati in funzione decisamente antinaturalistica: gli alberi si allungano oltremisura e le essenzializzate figure umane obbediscono solo a una coerenza insita nell’armonia della composizione. Quello che conta, ora, per Bonzagni, non è un significato recondito dell’opera né il chiaroscuro o la prospettiva, ma la semplificazione, l’immediatezza.
Ai Giardini appare un frammento di vita ricco di dinamismo umano, con donne, uomini e bambini. Si è prossimi allo scoppio della Grande Guerra ma qui non trapela la drammaticità del momento: la dimensione di Bonzagni è solo estetica. Come nel dipinto intitolato Al Campo di Siena, del 1915 (Raccolta Assicoop Modena&Ferrara) l’autore si ispira alla vita della ricca borghesia, che a Milano frequenta l’ippodromo di San Siro, il Teatro alla Scala e le caffetterie e che a Siena si ritrova al Palio nelle prime file. In questi soggetti mondani, come nella piazza senese, l’artista raggiunge esiti pittorici elevati e valenze cromatiche preziose, mostrando una piena autonomia espressiva e una personalità forte e inconfondibile. Protagonista assoluto è il colore, che Bonzagni sfuma senza affidarsi ad alcun contorno: la terra di Siena, le ocre, i neri bituminosi, il rosa, il verde e l’avorio creano una calda atmosfera cromatica che esalta il brulicare delle figure in attesa, il loro esistere frivolo e indistinto. Bonzagni concilia il colore con gli echi post fauves di artisti come Raoul Dufy, André Derain o di Pierre-Albert Marquet e, insieme ai colori, scioglie e confonde le sue figure in un’inquietudine espressiva, quella che sottolinea Renato Barilli e che gli permette di toccare i temi della vita moderna e della società di massa senza complessi di inferiorità verso le soluzioni più dinamiche proposte dai linguaggi cubo futuristi. Nasceranno così i tram milanesi carichi di gente: Un giorno di domenica chiamato anche Il tram di Monza (1916-17 ca.), Il circo (1916 ca.) e le case del 1917, spaccati di quartieri periferici “che salgono”, come in Boccioni, con un sentimento autenticamente ispirato di solitudine. Ma il tempo a disposizione dell’autore corre oramai verso la fine. Bonzagni muore di spagnola il 30 dicembre 1918 a Milano, dove è sepolto. Un significativo monumento funebre, finanziato interamente da Arturo Toscanini, realizzato da Adolf Wildt e inaugurato l’11 ottobre del 1919, diventa la chiara testimonianza della considerazione di cui gode. Nel secondo dopoguerra, a Cento gli è stata intitolata, per interessamento della sorella Elva, la Galleria d’arte moderna.

Riferimenti bibliografici: Carrà 1956; Carrà – Carpi 1961; Longhi 1963; Ballo 1969; Argan 1980; Barilli 1988; Sgarbi 2005; Gozzi 2006; Gozzi – Pallottino – Virelli 2015.

Gianfranco Ferlisi (2018)