Sassuolo (Modena), 1813 – Modena, 1885
Dopo aver completato il suo tirocinio nell’atelier di Lorenzo Bartolini a Firenze, iniziato nel 1846 grazie a una pensione ducale sempre su raccomandazione di Malatesta, Cappelli rientra definitivamente a Modena nel 1847, portando con sé il modello di una sua invenzione, tradotta in marmo ed esposta nel Palazzo Ducale nel 1851: la Gratitudine (Modena, Galleria Estense, in deposito nel Museo Civico d’Arte), memore della celebre Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini, che diede avvio a una cospicua serie di commissioni pubbliche e private e gli valse la nomina, con decreto sovrano del 26 novembre del 1851, a maestro di Elementi di scultura, in luogo di Silvestro Reggianini, presso la locale Accademia, di cui diverrà professore effettivo di Scultura all’inizio del 1858.Discepolo di Giuseppe Pisani presso l’Accademia Atestina di Belle Arti, si perfeziona su proposta di Adeodato Malatesta, direttore dell’istituto modenese dal 1839, all’Accademia di Carrara, sotto la guida di Francesco Tenerani, fratello del celebre Pietro, e di Ferdinando Pelliccia. Saggi di profitto degli studi sono una Testa di Venere, da Antonio Canova, e una copia della celebre Psiche abbandonata, capolavoro di Pietro Tenerani scolpito tra il 1816 e il 1817. La copia della Psiche, del 1846, acquisita alle raccolte ducali (Modena, Galleria Estense), introduce Cappelli in quel filone tematico sentimentale e intimistico improntato alla grazia e alla giovinezza muliebre con accenti anche patetici – verso cui pareva già tendere con la sua Orfanella, gesso presentato all’Esposizione Triennale dell’Accademia del 1844 – in cui solitarie e pensose figure femminili, velatamente melanconiche, si fanno espressione di sensi simbolici. Proprio in questa poetica “degli affetti” di lirica ispirazione, tradotta in forme di eletta eleganza, sembra risiedere la peculiarità dello stile di Cappelli, che può esser ricondotto a quell’idea del “semplice e sublime” di cui fu massimo esponente Pietro Tenerani, la cui personalità esercitò un vasto influsso sulla scultura modenese, proponendo una sintesi fra l’imitazione del naturale e la tensione verso l’ideale.
Sposato con Annetta Piccioli Cappelli e senza figli, con testamento olografo del 3 marzo 1877 Cappelli lasciava parte dei suoi beni al Regio Istituto di Belle Arti (ex Accademia Atestina), presso cui aveva insegnato fino al 1881, affinché fossero premiati gli studenti di Scultura più meritevoli.Il busto di Aldina Sandonnini del 1878 (Modena, Museo Civico d’Arte), in cui Cappelli accoglie l’incipiente verismo solo superficialmente, indugiando sull’abito e sull’acconciatura ma senza scalfire l’algida bellezza classica dell’effigiata, si configura al momento come l’ultima opera nota dello scultore.Sinora inedita è la notizia di una “statua in gesso rappresentante la Bonissima”, presentata nel 1872 nell’Esposizione presso l’Accademia di Modena, in occasione delle celebrazioni del secondo centenario di Ludovico Antonio Muratori.Cappelli ritorna sulla tipologia della figura femminile solitaria e pensosa con la Schiava (Modena, Museo Civico d’Arte), di cui presenta il modello non ancora terminato all’Esposizione del 1863, e la cui versione marmorea ottiene così ampi consensi di critica da essere inviata, nel 1866, all’Esposizione Universale di Parigi. Nella Schiava, con echi della Martire cristiana del lombardo Giosuè Argenti, divulgata dal celebre periodico Gemme d’arti italiane nel 1856, Cappelli propone per la prima e unica volta nel suo catalogo una figura femminile senza veli, affidando alla stuoia di paglia intrecciata e alla catena a cui è legata il compito di contestualizzare la sofferenza psicologica della giovane nuda accucciata a terra.La sua più nota realizzazione, nel vestibolo della cappella funeraria estense di San Vincenzo, è il Monumento all’arciduca Ferdinando d’Austria Este, fratello del duca Francesco IV, morto nel 1850, raffigurato nella divisa degli ussari austriaci, con bassorilievi nella base allusivi alla ritirata di Ulma. L’opera, di cui è conservato anche il disegno dell’autore (Padova, Archivio di Stato, Archivio del Cataio, b. 1941), fu eretta nel settembre del 1855 nella chiesa di Sant’Antonio della Cittadella, che accoglieva altre importanti presenze statuarie dal significato commemorativo e insieme propagandistico, ponendosi come luogo di celebrazione del potere politico e militare della casa austro-estense, e fu trasferita in San Vincenzo nel 1876 a seguito dell’atterramento di quel tempio.A Cappelli è attribuito anche il busto di Francesco V d’Austria Este, noto in diverse repliche, talora con piccole varianti, come i due esemplari in gesso nella Galleria Estense e gli altri, sempre in gesso, nel Museo del Risorgimento di Modena e già nella Raccolta Nannini, oltre ad un esemplare in marmo nell’Archivio di Stato.Appartenne a Cappelli anche il registro celebrativo. Sua, a riprova dei nessi fortissimi con l’Accademia modenese, è l’erma di Giuseppe Maria Soli (Modena, Istituto d’Arte “Venturi”), che s’ispira per i tratti fisionomici al Ritratto di Soli dipinto da Malatesta attorno al 1840; opera presentata all’Esposizione del 1863 ma commissionatagli attorno al 1859 dallo stesso pittore per la raccolta di erme dei direttori.Un afflato lirico d’intonazione intimista anima anche le forme puriste del busto, di soavità quasi neorinascimentale, della giovinetta Emilia Muratori (Modena, Museo Civico d’Arte), scolpito nel 1851.Si deve alla Società d’Incoraggiamento la commissione a Cappelli della Poverella, aggiudicata al maggiore Antonio Araldi secondo la consuetudine di questa istituzione di promozione dei giovani artisti modenesi (Albo 1851, p. 16). La statua, dispersa, compare in una litografia dell’Albo della Società d’Incoraggiamento del 1851 (tav. I: disegno di Giuseppe Zattera e litografia di Carlo Goldoni) e sul fondo del Ritratto di Giovanni Cappelli (Modena, Museo Civico d’Arte) – da ricondurre, a parere di chi scrive, al pennello di Adeodato Malatesta e da datare attorno al 1851 – configurandosi dunque come emblematica opera all’interno del catalogo dello scultore. Di essa Carlo Malmusi, storico e critico modenese, vicepresidente della Società d’Incoraggiamento, scrive: “L’ingenua fanciulla […] giunse appena a suoi sette anni. […] non ebbe altri fiori a rabbellire la vita, tranne i pochi qua e là spigolati, e cui tiene racchiusi, nel lembo della vesticciuola […]. Li raccolse all’alba per offerirli in iscambio del poco denaro che va chiedendo per via ai felici della terra” (Albo 1851, pp. 37-38). Va intesa quindi come replica, con la variante della mano tesa a elemosinare sostituita da una mano ricolma di fiori, attenuando l’afflato fortemente larmoyant del prototipo, l’esemplare – finora inedito – nella Raccolta Assicoop, firmato “Cappelli” e datato “1856”, affascinante testimonianza di quel nuovo ideale femminile, elaborato da Thorvaldsen e da Tenerani e di cui anche il modenese Giuseppe Obici diede prova con la sua Speranza e la sua Malinconia, che alla grazia sensuale della statuaria femminile canoviana sostituiva un registro più casto e austero, con la politezza delle forme di una grazia ancora acerba.
Riferimenti bibliografici: Albo della Società…1848, p. 25; Albo della Società…1851, pp. 37-38; Guida per l’Esposizione…1863, p. 16; Guida per le feste…1872, p. 75; Regio Decreto…1886, n. 83; Martinelli Braglia 1980, pp. 132-133, 135; Rivi 1995, pp. 29, 32; Martinelli Braglia (scheda) in Bentini 1996, pp. 130, 132; Righi Guerzoni (scheda) in Ferriani 1998, pp. 42-43; Rivi 1998, pp. 15, 19, 41, 51, 73-76, 79, 89, 101; Rivi 2001, pp. 226, 232; Panzetta 2003, vol. 1, p. 199; Malpighi 2005; Roio 2007, p. 289; Martinelli Braglia 2008, p. 189; Silingardi 2008 (b), pp. 250-254; Lorenzini 2011, p. 82.
(Luca Silingardi, 2013)