COLOGNESI GINO

Fiesso Umbertiano (RO)  1899 – Ferrara 1972

Di agiata famiglia polesana, Colognesi, dopo aver frequentato il ginnasio nella vicina Ferrara, decise di abbracciare l’attività artistica iscrivendosi ai corsi di scultura tenuti da Domenico Trentacoste presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Una volta ottenuto il diploma, nel 1921 si stabilì a Ferrara, rilevando lo studio dello scultore Giovanni Pietro Ferrari, che da poco si era trasferito nel Sudamerica: a questo suo primo soggiorno ferrarese si riferisce il bronzo acquisito nel 2021 da Assicoop Modena&Ferrara sul mercato antiquario cittadino.
L’opera è una replica di una delle tre coeve sculture bronzee, che l’autore collocò nel 1967 presso il cosiddetto Sacrario, allestito presso il Palazzo Municipale di Fiesso: raffigura una donna dolente, che potrebbe essere una madre che ha perso il giovane figlio nella Grande Guerra, oppure una sposa matura rimasta vedova, mentre le altre due opere raffigurano un mutilato cieco e un piccolo orfano.
Fino al 2010 l’opera apparteneva alla collezione di Vittorio Sgarbi, che nel 1992 l’aveva inserita in una mostra da lui curata sulla scultura italiana del Novecento presso il Castello Estense di Mesola; in seguito è stata venduta a Milano, durante un’asta parziale della collezione Sgarbi, pervenendo quindi sul mercato ferrarese, precisamente nella galleria di Monica Benini.
La scultura di Colognesi ben documenta l’apporto degli stilemi di Wildt, giunti a Ferrara negli anni immediatamente postbellici attraverso gli influssi del suo insegnamento a Brera o del sodalizio col ferrarese Arrigo Minerbi, che influenzarono altresì Giuseppe Virgili (nel San Sebastiano presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara e in un paio di tombe nel cimitero di Voghiera) ed Enzo Nenci (ne Il lamento di un cieco, marmo conservato presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Copparo).
Il sublime goticismo del maestro milanese si affianca qui ad una sorta di caricato espressionismo, che giunge a deformare la fisionomia, caratteristica che si rende più evidente in alcune sue opere più tarde, come Omaggio a Dostoevskij (L’idiota) del 1934 (bronzo esposto da Sgarbi a Mesola), il grandioso, distrutto Adamo, Cincinnato (Il ceppo), la cui testa rugosa è stata collocata nel Parco Colognesi a Fiesso e financo nel Busto del Garofalo (Canaro, Casa Tisi), inaugurato nel 1937.
In quel periodo Colognesi aveva iniziato una errabonda esistenza, che lo portò a vivere tra il 1925 e il 1932 a Parigi (dove frequentò il grande Antoine Bourdelle, del quale fu allievo) e a Milano nel 1932-1934 (in cui collaborò con Minerbi alla realizzazione di grandi bassorilievi di soggetto medico); quindi decise di tornare con la moglie Maria a Ferrara.
Nella città emiliana ebbe un nuovo studio presso l’Ippodromo (che gli permise di studiare in disegni e bronzetti il movimento dei cavalli, permeandoli di colti echi rinascimentali, tra Donatello, Verrocchio e Leonardo). Qui gli fu chiesto di ornare la fiancata dell’Auditorium Comunale con una allegoria denominata Il Canto, affiancandola a figure allegoriche di Virgili e Ulderico Fabbri. Espose inoltre alle mostre sindacali, stringendo rapporti di amicizia con vari artisti estensi. Tra queste rassegne ricordiamo l’esposizione del 1936, dove presentò modelli di bassorilievi destinati al Palazzo della Camera di Commercio di Rovigo.
Non si pensi però ad una attività di pretto interesse localistico: nel 1939 tenne una personale presso la prestigiosa galleria Gian Ferrari di Milano, nel 1940 fu invitato ad esporre due sculture alla Biennale di Venezia, partecipando quindi ad un concorso per la decorazione dell’E42 a Roma, con una energica Quadriga, che si piazzò onorevolmente alle spalle di una scultura di Francesco Messina; inoltre, Colognesi ha opere nelle Gallerie d’Arte Moderna sia di Milano che di Roma.
Nel frattempo era scoppiata la seconda guerra mondiale e lo scultore fu destinato come ufficiale al fronte libico: fatto prigioniero dagli inglesi in Egitto, ottenne comunque il permesso di disegnare e dipingere, come dimostra il dantesco Paolo e Francesca, dipinto ingegnosamente su pezzi di tela tolti dalle ali di aerei abbattuti e acquistato da un colonnello di origini indiane.
Rientrato a Ferrara, nel novembre 1946 partecipò con varie sculture ad una collettiva presso il Castello Estense ed espose opere di tema sacro a Milano e a Bologna; ma, avvertendo sempre più una incomprensione critica, una forte inquietudine, un nefasto senso di isolamento, decise nel 1950 di trasferirsi in Brasile.
Visse tra San Paulo e Bahia, eseguì sculture per palazzi, collegi religiosi, cimiteri, ma nel 1957, a causa dell’incerta situazione politica determinata dal suicidio di Vargas, presidente della Repubblica brasiliana, Colognesi decise di tornare in Italia stabilendosi nel Veneto. Rientrò quindi nel paese natio, dedicandosi sia alla scultura che alla pittura che all’incisione ed ottenne dal Comune di Fiesso di allestire il proprio studio in un ambiente del settecentesco Palazzo Municipale.
Qui sistemò un sacello denominato il Sacrario (in memoria dei caduti delle due guerre mondiali) e dove collocò anche la dolente figura del 1922 la cui replica è oggi all’Assicoop: altre interessanti sculture donò al Comune fiessese, come La famiglia romana davanti all’ara votiva (1959, bozzetto di un bronzo presso l’Università di Padova), Cavallo al passo, 1964, bronzo deliziosamente neo-manierista, Donna in costume antico (1966, identificabile in un ritratto di Marfisa d’Este) e Uomo nudo in un paesaggio, gesso policromo d’icastica ambientazione padana.
Nel suo studio municipale egli sperimentava cere e colori, encausti e terre cotte, ma questa sua ricerca gli fu fatale: il 31 maggio 1972, i fornelli a petrolio e a gas lasciati perennemente accesi scatenarono un grave incendio, che gli provocò una intossicazione da ossido di carbonio e terribili ustioni in varie parti del corpo. Trasportato in stato quasi comatoso all’Arcispedale S. Anna di Ferrara, Colognesi vi morì dopo un’atroce agonia durata dieci giorni.

Riferimenti bibliografici: Scardino (a cura di), 1992; Sgarbi, 1992; Scardino 1998

Lucio Scardino (2021)