FABBRI ULDERICO

Monestirolo, Ferrara, 1897 – Ferrara 1970

Nato da umile famiglia di commercianti nella campagna ferrarese, Ulderico Fabbri fu allogato in età adolescenziale presso la bottega del marmista Boldrin a Ferrara, frequentando nel contempo i corsi serali presso la civica scuola d’arte “Dosso Dossi”, sotto la guida di Giovan Battista Longanesi.
Partito diciottenne per la Grande Guerra, lo scultore ferrarese fu gravemente ferito alle mani durante un cruento scontro in Macedonia, rischiando la totale atrofia di quella sinistra e parte di quella destra.
Dotato di grande volontà e deciso a sconfiggere la paralisi, Fabbri nel 1920 pensò di frequentare la Casa di Rieducazione dei Mutilati a Roma, riuscendo a recuperare in gran parte l’uso delle mani: si perfezionò nel contempo nella modellazione frequentando i corsi dell’Accademia di Belle Arti a Roma, dove riuscì a frequentare notevoli scultori quali Ferrari e Selva.
La sua formazione stilistica passava dalle prime opere, inseribili in un gusto tardo-liberty, ad una più marcata stilizzazione novecentista, grazie anche alle frequentazioni romane, come rivela una robusta quanto intensa figura di Uomo ignudo (un soldato?), datata al 1925 e conservata presso la collezione Farinelli di Ferrara.
Ma la sua prima opera di committenza pubblica, ossia la Via Crucis collocata nel Gran Claustro del Cimitero della Certosa di Ferrara e iniziata sin dal 1926, rivela una frantumazione della materia resa costruttivamente nelle 14 formelle grazie all’uso della “polliciata” e con il recupero dello stiacciato donatelliano di un taglio che si direbbe obsoleto.
L’amico avvocato Giuseppe Longhi per lui rilevò, come fatto positivo: “Una scuola? Nessuna scuola ha seguito, ma ha con sincerità operato nella scia dell’arte figurativa classica (soprattutto) esprimendosi con intuizione nel simbolismo religioso”.
In realtà Fabbri per tutta la vita svolse una attività ecletticamente tesa fra adesione al Novecento più canonico, una sorta di revival teso al recupero della tradizione rinascimentale, nella fattispecie neo-estense e infine una morbida modellazione, ancora ottocentesca e con echi di Medardo Rosso, ma anche del modenese Giuseppe Graziosi, allora docente di Plastica presso l’Accademia di Firenze. E, difatti, suggestioni assimilabili a talune opere conservate nella civica Gipsoteca Graziosi di Modena possono rintracciarsi altresì nel delizioso Bimbo al telefono della collezione Assicoop, al di là della sua “modernità iconografica”.
Esposto nel 1931 in una personale a due (con l’amico pittore Carlo Crispini) il giovinetto scolpito in pietra artificiale fu allora definita dal critico Luigi Greci “graziosissimo e vivace”, giudizio condivisibile, specie confrontando l’opera col coevo e più statico putto della fontana per la palazzina di Marfisa d’Este dell’amico Giuseppe Virgili, che quasi sembra voler recuperare esempi manieristi del Giambologna.
Invece Fabbri gioca spiritosamente con la inedita cornetta del telefono, che sostituisce la classicheggiante conchiglia col rumore del mare, deforma in modo naturalistico la pancia del bimbo curioso (e goloso), lo raffigura con le gambette storte, in una capricciosa posa, squisitamente infantile.
L’opera un tempo apparteneva alla collezione di Elio Vitali, il quale ha giustamente richiesto al restauratore fiorentino Antonio Torresi di realizzare una piccola base per sostenere la scultura, ma è stata acquisita dall’Assicoop tramite il negozio di antiquariato “L’ossimoro” di Spilamberto. Questo antiquario possiede altresì il bronzeo Balilla, pure esso presentato da Fabbri alla sua personale del 1931 (e quindi riesposto a mostre sindacali di Bologna e di Forlì).
Ma le opere più significative di quel periodo sono forse quelle a destinazione pubblica: il bronzeo Genio della Musica, posto sulla fiancata esterna dell’Auditorium di Ferrara, il marmoreo rilievo allegorico con la esecuzione di Fabio Filzi, destinato ad una fontana monumentale in Libia ma pervenuto poi all’Istituto d’Arte “Felice Palma” di Massa, il Giovinetto in bronzo della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Milano, il Busto di Emilio De Bono nella Casa Madre dei Mutilati a Roma, il ritratto in marmo del giovane Rino Moretti, un tempo in una sede fascista di Ferrara e oggi in collezione privata della stessa città, San Giovannino (Ferrara, collezione Bariani), presentato alla Biennale di Venezia nel 1936.
Si trattò di una delle numerose occasioni espositive che coinvolsero in quegli anni Ulderico Fabbri, sia per le sue qualità intrinseche che per l’appoggio che sempre gli diede l’importante lobby costituita dagli invalidi di guerra, acquistandogli opere e allogandogli importanti commissioni.
Non bisogna trascurare poi l’appoggio fornito a Fabbri da uomini politici ferraresi, a cominciare da Italo Balbo, ritratto dal conterraneo in numerose occasioni (a cominciare dal busto del gerarca intitolato Il Colonizzatore e presentato alla Quadriennale romana del 1935) per finire all’industriale e neo-conte Vittorio Cini, nella cui casa ferrarese si apprezza ancora oggi una sua delicata Madonna o all’altro industriale, Ferdinando Grandi di Bondeno, nella cui fornace cuocette varie composizioni e al quale decorò la villa bondenese.
Nel 1937 Fabbri fu poi designato come principale giurato per un concorso incentrato su una targa marmorea da porre sulla facciata del nuovo Museo di Storia Naturale a Ferrara, che però non vide alcun vincitore.
In realtà l’impegno maggiore fu per Fabbri più di tipo religioso che di carattere politico, tanto che negli ultimi 25 anni lavorò pressoché esclusivamente per l’ambito ecclesiastico, segnatamente di quello ferrarese. A cominciare da una splendida Madonna in terracotta “alla Domenico di Paris”, esposta nel 1946 ed oggi presso l’ex Cassa di Risparmio di Ferrara (ora BPER) e a un delizioso gruppo, ugualmente fittile, raffigurante Cristo fra gli angeli (Bondeno, Pinacoteca Comunale “Cattabriga”) le motivazioni religiose divennero preponderanti nella produzione di Ulderico Fabbri.
Il suo capolavoro in tal senso resta il monumento funebre dell’arcivescovo Ruggero Bovelli, in marmo, posto nel 1955 nell’altare del Crocefisso nella Cattedrale di Ferrara, una intelligente parafrasi della statuaria toscana del Quattrocento, tra Jacopo della Quercia e i Rossellino, ovvero fra il lucchese monumento a Ilaria del Carretto e quello del vescovo Roverella, ammirato e studiato dall’artista nella basilica di S, Giorgio a Ferrara.
L’appoggio della Curia ferrarese indubbiamente lo agevolò, allorchè gli fu richiesto di completare la pala marmorea del Sacro Cuore a Milano (iniziata dal Rubino), così come quello dell’onorevole Giorgio Franceschini, oltretutto suo avvocato, il cui figlio Dario a Roma possiede un altro suo vibrante busto di Madonna.
Ma Fabbri era assai restio ad accettare committenze esterne, pago di realizzare la propria produzione entro le mura dell’amatissima Ferrara, come conferma il documentario di Florestano Vancini Al Filò (1953), che lo vide fra i suoi protagonisti.
Quell’anno egli realizzò uno dei suoi capolavori di tema sociale, ovvero il bellissimo gruppo fittile Salvamento (Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi), trepida composizione raffigurante una donna che sta salvando dalle acque il proprio figlio, ad un tempo rielaborazione del mito biblico del piccolo Mosè ed evocazione della tragica alluvione nel Polesine del novembre 1951, in sintonia con gli stilemi di eccellenti scultori novecentisti padani quali Gorni e Rambelli.
Nel ventennio Cinquanta-Sessanta furono numerose le composizioni di piccole dimensioni realizzate da Fabbri per il collezionismo cittadino, al contempo sacre ed intimistiche, quasi sempre realizzate in cotto ferrarese e dai sintetici moduli stilistici, grazie ad una polliciata di un gusto impressionista e dai toni quasi “scapigliati”.
Questa estrema produzione, dagli esiti alterni, è stata giudicata severamente dalla critica, tanto che Andreotti ha parlato di un periodo “nel quale l’artista si era abbandonato ad una sintesi mistica dalla forma un poco sgradevole, senz’altro più programmaticamente sacrale ma anche più esteticamente fragile”.
Al di là del giudizio eccessivamente negativo, è da rilevare che nell’ultimo suo lustro di attività Ulderico Fabbri rivelò nuovamente un eclettismo nelle opere monumentali senza una vera e propria ragione: e così nel Narciso (1964), posto nell’atrio del Palazzo della Camera di Commercio di Ferrara, egli compie un pur sapiente omaggio alla maniera di Arturo Martini di venti-trenta anni prima, mentre nella tomba del collezionista d’arte Mario Magrini (1969, Cimitero della Certosa di Ferrara), irrigidisce vieppiù il taglio neo-rinascimentale del monumento Bovelli in Duomo.
Ulderico Fabbri è morto a Ferrara il 16 agosto 1970: da allora gli sono state dedicate due rassegne monografiche a Ferrara, rispettivamente nel 1989 a Casa Cini e nel 2015 a Casa Franceschini (e non presso il Circolo “Unione”, come indicato erroneamente nel catalogo della collezione Sgarbi curato da Di Natale, a p. 366).

Riferimenti bibliografici: Pozzi 1937, pp. 353-358; Longhi 1979, pp. 94-95; Andreotti 1989, pp. 5-7; Scardino 1998; Scardino 2015; Scardino (scheda), in Di Natale, 2018, pp. 344-345.

(Lucio Scardino, 2018)