Luigi Manzini

Modena, 1805 – 1866

Figlio del pittore Angelo e di Maria Bonini, nacque a Modena il 30 agosto 1805. Dall’anno scolastico 1820-21 fu allievo dell’Accademia Atestina di Belle Arti, dove seguì le lezioni di professori ancora legati al gusto neoclassico, in particolare di Pietro Minghelli e Geminiano Vincenzi. La fedeltà agli insegnamenti di quest’ultimo ne fece l’allievo prediletto, come certifica la sua chiamata, dopo la sopravvenuta cecità del maestro, per terminare la pala di Sant’Andrea Avellino (1827) situata nella chiesa di Sant’Agostino. Fu questo l’esordio di una carriera molto prolifica che lo vide produrre numerosissime opere disseminate negli edifici religiosi del ducato austro-estense, soprattutto del versante modenese. La sua formazione artisticamente tradizionalista, fondata sullo studio del filone classico del Seicento emiliano, con un occhio attento anche agli autori locali che seguirono questo indirizzo, in specie ad Antonio Consetti, si esplicò in un linguaggio piacevole e equilibrato, di facile comprensione, connotato da un’accesa cromia e da una sentita ricerca di efficacia espressiva e persuasiva, capace di rispondere al meglio alle richieste di immagini didascaliche e devozionali, provenienti da una committenza che in quel periodo di Restaurazione era soprattutto interessata a diffondere un regolare e sorvegliato messaggio religioso. Il catalogo delle opere sacre, peraltro ancora in via di definizione, è molto lungo. In quasi tutti i luoghi di culto di Modena sono presenti suoi dipinti, sia sugli altari che nei locali interni riservati al clero. Lo stesso si dica per tante altre chiese ubicate nel territorio provinciale, cui vanno aggiunte la tela con I santi Sebastiano, Luigi Gonzaga, Rocco e Antonio Abate della parrocchiale di Campagnola, in provincia di Reggio Emilia, e la pala raffigurante La Madonna col Bambino e i santi Agostino e Monica, nel convento del Corpus Domini di Cento (ma proveniente dalla chiesa delle Agostiniane di Modena; Rivi 2005).

L’assenza nella sua formazione di viaggi di aggiornamento lo condusse nel tempo a rinchiudersi in uno stile lezioso e ‘manierato’, incapace di accogliere le nuove istanze provenienti dai maggiori centri artistici della penisola. Forse fu anche per questo che, nonostante un innegabile successo di pubblico e la protezione del Ministro di Pubblica Economia e Istruzione Luigi Rangoni, le sue attese di trovare impiego come docente presso l’Accademia Atestina furono deluse. Tuttavia nell’aprile del 1840, a pochi mesi di distanza dalla garbata risposta negativa che il fresco direttore della scuola d’arte Adeodato Malatesta gli aveva comunicato, Manzini trovava appagamento nell’incarico d’insegnante di disegno ottenuto dal Collegio dei Nobili di San Carlo (Morandi 1998). Era questo il dovuto riconoscimento a una carriera che nel corso degli anni trenta lo avevano visto affermarsi come protagonista anche in numerosi cantieri cittadini, spesso coadiuvando come figurista il lavoro d’ornato svolto dall’amico scenografo Camillo Crespolani (1798-1861). Il sodalizio tra i due è documentato fin dall’inizio del decennio in lavori eseguiti nei nuovi appartamenti fatti allestire da Francesco IV nel Palazzo Ducale, un impegno che si protrarrà in modo saltuario per diversi anni (Corradini 2003; Cavicchioli 2022), alternandosi con interventi decorativi svolti in chiese e dimore private che solo in questi ultimi tempi la critica è andata riscoprendo. Oltre agli episodi già indagati riguardanti il restauro, compiuto nel 1838, degli affreschi della volta della chiesa di San Barnaba, quello (perduto) delle Pentetorri, che li vide impegnati nel biennio 1843-1844 (Sirocchi 2018), e le decorazioni svolte nei saloni di alcuni palazzi patrizi modenesi (Bonacini, Cassoli Lorenzotti e Gandini), dove Manzini poté avvalersi anche dell’abilità del fratello Ferdinando (1817-1886), il migliore allievo di Crespolani (Silingardi 2008), si dovranno ricordare pure quelli meno noti di casa Lonzana in Via Fonteraso e del distrutto palazzo Merenda in Via Università. In entrambi il tema sviluppato fu quello della Secchia rapita di Alessandro Tassoni, di cui restano del primo – essendo le tele delle pareti andate perdute in un incendio (note comunque attraverso alcune cartoline) –, solo gli affreschi del soffitto, con figure di quattro divinità greche, e dell’altro una grande tempera su muro conservata nel Museo civico di Modena (Bulgarelli 2013). Il forte impianto scenografico che impronta queste immagini, ravvisabile anche nel distrutto sipario di comodo eseguito per il nuovo Teatro Comunale (conosciuto tramite fotografie; Martinelli Braglia 1993), dichiara il notevole debito di Manzini nei confronti del mondo dello spettacolo, evidenziato altresì dalle pose e dai gesti dei suoi personaggi che, nella scomposta articolazione delle membra, assumono spesso le sembianze di marionette recitanti melodrammi da operetta, in scene infervorate da un concitato accento narrativo. Neppure la svolta purista impressa nell’ambiente artistico modenese da Malatesta, all’inizio degli anni quaranta, riuscirà a farlo deviare più di tanto da questo rodato linguaggio figurativo, e ciò se da un lato ne ha aggravato la monotonia espressiva dall’altro però ne ha consentito una salda identità stilistica che agevola il riconoscimento delle sue opere, persino per quello che riguarda i ritratti, di norma più complicati da accertare, il cui corpus si è andato notevolmente ampliando in questi ultimi anni. All’attività di pittore e insegnante Manzini unì anche quella di restauratore, lavorando spesso per la corte, specialmente negli anni che precedettero l’apertura della Galleria Estense (1854), affiancando nel lavoro il collega Carlo Goldoni. Nonostante una carriera molto densa d’impegni e di riconosciuto successo, gli anni finali della sua esistenza, a causa del nutrito gruppo familiare a suo carico, furono contrassegnati da condizioni economiche piuttosto precarie, tanto da costringerlo a chiedere nel maggio del 1860 a Malatesta un aiuto per ottenere un incarico ministeriale presso il nascente Stato italiano. È tuttavia in questo periodo che porta a termine un interessante trattato di pittura (Rivi 2008), rimasto inedito probabilmente per la sua sopraggiunta morte, avvenuta il 5 gennaio 1866.

 

Riferimenti bibliografici: Baccarani 1911; Barbieri 1966, pp. 122-123; Ghirardi 1987, pp. 272, 274, 275, 277; Garuti 1989; Martinelli Braglia 1991, pp. 138-140; Guandalini 1993; Martinelli Braglia 1993; Mancini 1997; Silingardi-Barbieri 1997, 11, pp. 100-101; Ferriani 1998, p. 268; Lettere dell’artista 1998, pp. 14-17, 20, 44, 48, 51, 99, 125; Morandi 1998; Garuti 1999; Martinelli Braglia in L’esercizio della tutela 1999, pp. 128-129; Mazza, in L’esercizio della tutela 1999, pp. 125-126; Martinelli Braglia 2001; Corradini 2003; Rivi 2004; Garuti in L’Ottocento. Maestri di pittura tra Modena e Carpi 2005, p. 34; Rivi 2005; Fontana 2007; Rivi 2008; Silingardi 2010; Bellesia in Museo Civico d’Arte di Modena. Dipinti dell’Ottocento e del Novecento 2013 pp. 209-210; Bulgarelli, in Museo Civico d’Arte di Modena. Dipinti dell’Ottocento e del Novecento 2013, pp. 210-212; Fiorini, in Museo Civico d’Arte di Modena. Dipinti dell’Ottocento e del Novecento 2013, pp. 213-214; Montecchi in Museo Civico d’Arte di Modena. Dipinti dell’Ottocento e del Novecento 2013, pp 214-215; Sirocchi 2018; Martinelli Braglia 2019; Martinelli Braglia 2019; Cavicchioli 2022, pp. 34, 44, 86-87, 96, 101, 104, 106-117.

 

(Marco Dugoni, 2023)