Ferrara 1881 – Desenzano del Garda, Brescia 1921
Le due inedite visioni di Comacchio, dei suoi ponti, delle sue case umili, dei suoi canali placidi, dei suoi campanili baroccheggianti acquisiti da Assicoop risultano fra i rari paesaggi del ferrarese eseguiti da Martelli, prevalentemente operante in Lombardia.
Fanno eccezione il suggestivo Paesaggio al tramonto (1916), collocato in un ufficio dell’ex-Provincia di Ferrara (Castello Estense) e il ciclo di 10 dipinti denominato La Badia di Pomposa, presentato da Martelli alla I Esposizione d’Arte Ferrarese, approntata nella primavera 1920 presso il Palazzo Arcivescovile di Ferrara.
Ma mentre le opere succitate dimostrano l’adesione del pittore alla grammatica divisionista (nella suggestiva veduta della campagna ferrarese al tramonto) o ad un sintetismo “secessionista” nel ciclo pomposiano, già in collezione Gussi ed oggi disperso ma conosciuto mediante diverse riproduzioni fotografiche in bianco e nero, le due opere dipinte a Comacchio parrebbero dipinti più giovanili, eseguite forse attorno al 1900-1905, a ridosso degli studi compiuti dall’autore presso la civica scuola d’arte “Dosso Dossi” di Ferrara, sotto la guida del pittore-docente Angelo Longanesi.
I due paesaggi comacchiesi raffigurano la via Agatopisto, con il prospetto dell’Ospedale di S. Camillo e il prospicente Ponte degli Sbirri, mentre il secondo dipinto riporta la parte terminale della strada, con il Ponte dei Sisti e sullo sfondo la rosea facciata di Palazzo Bellini, ora sede della Biblioteca Comunale. Si tratta di alcuni aspetti cari al vedutismo locale dell’Otto-Novecento, da Giuseppe Felletti a Vitale Vitali, modernizzati da Martelli con il sapiente gioco di campiture e tonalismi cromatici.
In seguito, il pittore si trasferì a Milano, per perfezionarsi all’Accademia di Brera, dove ottenne vari premi e riconoscimenti e in cui si dedicò con sapienza anche alla tecnica incisoria.
I suoi primi dipinti noti (Satiri in una pineta, 1906, Pieve di Cento, collezione Tirini; Paesaggio, 1906-1910 ca., Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi) dimostrano un allineamento con il simbolismo mitteleuropeo, idealmente ondeggiante fra Bocklin e Diefenbach: si pensi soprattutto al paesaggio marino della collezione Sgarbi, raffigurante presumibilmente i faraglioni di Capri, intriso di un gusto quasi panico e panteista, nell’intenzione di rappresentare un vero e proprio luogo del Mito.
In seguito Martelli si dedicò alla raffigurazione appassionata degli alberi, soggetto sviscerato nella sua prima personale, allestita con successo presso la “Famiglia Artistica” di Milano nella primavera del 1912, che gli permise di conoscere il grande poeta ferrarese Corrado Govoni.
Il fine letterato gli dedicò un’entusiastica recensione, in cui venne evidenziato il suo interesse precipuo per la rappresentazione del paesaggio solitario usando acute metafore: “Cieli autunnali inchiostrati di nuvole fatte tristi ed azzurrine dai troppi pianti estivi, lente e stanche di correre e che sembrano soffermarsi e adagiarsi sugli alberi e sulle case, determinate di non muoversi più e di disfarsi per sempre nel bistro della notte o nel belletto dell’aurora; cieli delicatamente rosei come una primavera di peschi in fiore, vellutati cieli notturni minati da pallide lune che inargentano acque morte di boschi in preda alla disperazione dell’usignolo; canali che vanno così leggeri sotto il giogo del ponte, che sembra non nel mare doloroso trascinino il loro dolce carico di pianto consolatore ma verso una foce invisibiledi cielo turchino careggino una lor divina soma di scorie di stelle, tanto sono felici e chiari e luminosi. E sopra tutto alberi ed alberi…”.
Seppure non si possa escludere che egli abbia potuto presentare alla mostra anche le nostre due vedute comacchiesi (con i “canali che vanno così leggeri sotto il giogo del ponte..) è da pensare piuttosto che Martelli si sia presentato alla ribalta meneghina presentando composizioni più simboliste, in linea con il Divisionismo del geniale conterraneo Gaetano Previati o con quello più illustrativo di Giuseppe Mentessi, docente a Brera, se non con il fitomorfismo di matrice Liberty, che prediligeva le linee frondose dei rami delle piante.
E comunque in quello stesso periodo egli ornò con pannelli di soggetto botanico il palazzo dell’industriale e collezionista d’arte Emilio Arlotti, posto nella ferrarese via Borgo Vado e dipinse numerosi paesaggi, alcuni dei quali esposti alla Biennale di Venezia, nelle edizioni del 1912 e del 1914. Di questa epoca, tra le altre cose, è la notevole rappresentazione di un paesaggio estivo, con salici piangenti e covoni di grano (Ferrara, collezione privata), non indegno negli esiti stilistici del grande divisionista toscano Plinio Nomellini, presentato nel 2008 alla rassegna “Verso Ferrara…”.
Il tragico periodo bellico fece finalmente avvicinare Martelli alla figura umana, come rivelano due notevoli dipinti conservati presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Ferrara: il barbarico Caino, allegoria della guerra allora in corso, dai toni quasi espressionisti e il dolente Abruzzo, ispirato all’apocalittico terremoto di Avezzano del 1915.
In quel periodo Martelli ebbe comunque un importante riconoscimento critico con l’ampio articolo di Luigi Rasi apparso sulla rivista “Emporium”, con sottili considerazioni sul suo “simbolismo naturalistico”, mentre il ferrarese cominciava a poter contare su collezionisti fedeli, quale Isaia Zancone, che poi destinò otto quadri di Martelli in dono alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Milano: paesaggi lacustri, montani e collinari costruiti con pennellata sintetica ma corposa e risolti mediante originali angolazioni visive, che rifuggono dal pericolo di ingolfarsi nella retorica più “cartolinesca”, financo nelle vedute del “Cervino”, intelligente aggiornamento di suggestioni alla Segantini.
Nell’ultimo suo lustro di vita il pittore riallacciò nel contempo i rapporti con l’ambiente d’origine, forse grazie al tramite importante costituito da Corrado Govoni: nel 1919 il poeta gli dedicò il volumetto “Ugo Martelli, ossia il primo incontro dell’uomo del bosco”, edito da Taddei, originale apologo sull’arte contemporanea dai toni filosofici e gli commissionò le illustrazioni per il “Libro del bambino: l’arcobaleno”, primo titolo pubblicato dal giovane Rizzoli. Le tavole di Martelli rivelano una colta rimeditazione del Divisionismo, ma anche dei francesi Nabis e Fauves per il gusto della estrema sintesi, nella ricerca del segno/arabesco, per la vivace tavolozza, realizzata con pennellate ora piatte ora nervosamente delineate.
Anche altri intellettuali ferraresi lo frequentano e lo stimano: Filippo De Pisis lo esaltò nella sua recensione alla collettiva ferrarese del 1920, mentre Donato Zaccarini e Ferruccio Luppis lo rappresentano nei loro articoli come un artista di valore, dannunziamente decadente: Luppis nel 1919, oltretutto, gli chiese di illustrare il suo volumetto “I peccati delle stagioni”, con motivi dove egli tentò di “antropomorfizzare” simbolicamente la Natura seguendo la lezione dell’asciutta grafica incisa che andava allora propugnando la celebre rivista “L’eroica”.
Lo stesso anno tenne una personale a due presso l’importante Galleria “Pesaro” di Milano, assieme allo scultore conterraneo Arrigo Minerbi: forse in quell’occasione conobbe Marta Palmer e il marito Giovan Battista Fogliata, che possedevano una importante casa di moda e che conducevano una vita lussuosa e dalle scelte morali alquanto eccentriche, che molto affascinarono Martelli.
La coppia aveva allora acquistato l’antica villa gardesana di San Francesco, posta nei pressi di Sirmione e aveva deciso di farla rimodernare, dando questo incarico proprio a Martelli.
In un concetto di arte totale Martelli eseguì le decorazioni parietali, modellò rosoni lignei per i pannelli, disegnò i mobili, progettò le vetrate: trasferitosi sul lago di Garda nel 1920-21 riprese vari scorci paesaggistici, che dovevano formare il nuovo ciclo “La terra e l’uomo”.
Da quanto si arguisce dalle opere superstiti (alcune delle quali conservate presso la collezione Wolfson di Genova) e da vecchie fotografie della decorazione, andata in gran parte distrutta, Martelli miscelò, in questa sua opera estrema, echi espressionisti (alla Lorenzo Viani) e liberty (tra Bonzagni e Chini), richiami al Secessionismo austro-tedesco e all’onirismo di Kubin, non scordando l’iconografia rinascimentale più legata alla raffigurazione dei segni astrologici e alla celebrazione dei lavori agricoli, a cominciare da Schifanoia.
Ma un tragico destino attendeva Ugo Martelli: il 24 giugno 1921 mentre compiva una gita in motocicletta sul lago il pittore sbandò, cadendo nel fondo di un fosso. Morì nell’ospedale di Desenzano a causa della commozione cerebrale, a soli 39 anni.
Riferimenti bibliografici: Govoni 1912; Luppis 1916; Rasi 1917, pp. 322-335; Zaccarini 1918; Govoni 1919; De Pisis 1920, p. 21, Scardino 1994, pp. 67-74; Scardino 2001, pp. 74-75; Scardino 2008, pp. 74-75; Scardino (scheda) in Di Natale, 2018, pp. 308-309.
Lucio Scardino, 2018