Spilamberto (Modena), 1807 – Roma, 1878
Non sono frequenti i casi in cui il profilo biografico e operativo di un artista assume contorni ben definiti grazie ai ricordi autobiografici intrecciati ai carteggi e alle memorie di chi lo conobbe di persona. Accade per Giuseppe Obici, autore nel 1865 di un manoscritto (Modena, Biblioteca Estense e Universitaria, Fondo Sorbelli n.1511) espressamente redatto per il marchese Cesare Campori, suo estimatore e amico, che si accingeva a pubblicare la seconda edizione della monografia a lui dedicata. Come si evince dalla premessa, Campori gli aveva mandato in visione in anteprima il suo scritto e lo scultore notava che “vi mancano certe tinte che gli diano risalto” nonché certi aspetti sconosciuti al marchese.
Evidentemente Obici intendeva tutelare in tal modo la propria immagine e Campori ne terrà conto rivedendo il proprio lavoro (1865), ripubblicato postumo nel 1881 a cura del fratello Giuseppe e nel 1883 dai nipoti dell’artista unitamente ai ricordi personali del modenese Zanfi che frequentò lo scultore a Roma negli ultimi anni della sua vita. Dall’immediatezza discorsiva del manoscritto affiorano episodi della prima giovinezza trascorsa nel paese natale, contrassegnati dall’estro creativo nel modellare con l’argilla ornati e figure, da esternazioni di profonda sensibilità, dal forte desiderio di promozione sociale. Con tale obiettivo, narra, inizia la frequentazione del seminario di Modena per volontà di una zia che lo sussidia, ma il disinteresse per gli studi di retorica e filosofia gli fa dismettere l’abito talare per accedere con l’appoggio del noto archeologo mons. Celestino Cavedoni all’Accademia Atestina di Belle Arti. “Studiavo all’impazzata” afferma Obici che già nel primo anno scolastico (1826-1827) si segnala tra gli allievi meritevoli del premio di incoraggiamento. Peraltro, come attestano gli atti dell’Accademia nell’arco dei due trienni successivi (Archivio di Stato di Modena, Fondo Istituto d’Arte A.Venturi, bb. 5 e 6), il suo iter formativo sotto la docenza del direttore e scultore di corte Giuseppe Pisani prosegue con risultati gratificanti. Consegue ulteriori premi e l’onore dell’esposizione dei propri lavori tra cui Narciso al fonte (1834) (Raccolta d’arte del Comune di Spilamberto), uno dei temi mitologici privilegiati negli esercizi accademici, ispirato ad una stampa derivata in controparte dal dipinto pompeiano della casa di M.Lucrezio. Dietro raccomandazione di Pisani e grazie al pensionato ducale il giovane artista si trasferisce nel 1834 all’Accademia di Carrara per un triennio di perfezionamento sotto la docenza di Ferdinando Pelliccia, che lo avvia a superare l’algido accademismo e all’espressione delle istanze naturalistiche secondo la lezione dello scultore carrarese Pietro Tenerani. Nei primi tempi incontra non poche difficoltà, ma poi conosce il giudice modenese di prima istanza Tommaso Borsari che lo ospita quotidianamente e ne realizza il bel Ritratto marmoreo a mezzo busto dalla spiccata individualità (Modena, Museo Civico d’Arte). Obici racconta inoltre che, sollecitato dal desiderio di emergere, non si lasciò sfuggire l’occasione di ritrarre di nascosto in un medaglione il principe Francesco d’Austria d’Este erede al trono di Modena, giunto con la famiglia a Carrara nella primavera del 1835, mentre assisteva al Te Teum in cattedrale. Scrive testualmente: “Per mezzo di Borsari fui presentato al duca che nel vedere il ritratto restò vivamente sorpreso. Anzi ripeto le sue parole: Che voi, disse, abiate [sic] talento non ne ho mai dubitato, anche Pisani è di questo parere ma non comprendo come vi sia venuta l’idea di fare tale ritratto”. Convinto dalla pronta risposta del giovane scultore (Audaces fortuna juvat), Francesco IV lo invitò alla corte di Massa per ritrarre dal vero il figlio; non soddisfatto della qualità del marmo e del primo esito, secondo Campori l’artista lo distrusse, lo rifece e lo mandò a Modena dove fu molto apprezzato per la buona fattura e la rassomiglianza. Inviò inoltre all’esposizione triennale dell’Accademia Atestina altri suoi saggi di studio: il modello in gesso dell’Orfeo di chiara ispirazione canoviana (Modena, Istituto Venturi), un torso del Partenone e un ritratto (non altrimenti connotato) che meritarono gli elogi di Pisani e una menzione nel giornale “La Voce della Verità” (6 luglio 1837).
Il trasferimento a Roma nel 1837 dietro pensione ducale gli dischiude nuovi orizzonti e stimoli culturali a contatto con i capolavori del passato, di Canova, Thorwaldsen e Tenerani. È affascinato dall’arte classica che copia in vari particolari, trascorre otto mesi nell’atélier del maestro carrarese, poi si mette in proprio in un modesto studiolo e non farà più ritorno a Modena, anzi rifiuterà l’offerta della docenza di scultura presso l’Accademia Atestina avanzata nel 1843 da Adeodato Malatesta. In effetti a partire dalla fine degli anni Trenta si apre il periodo più fecondo della sua carriera che lo connota artista di successo, sebbene avvilito dalla penuria dei mezzi di sussistenza come confida al fratello Antonio (Modena, Biblioteca Estense e Universitaria, Autografoteca Campori). Tra le prime opere romane realizza il gruppo raffigurante San Pietro che riceve le chiavi da Cristo (Modena, Seminario Metropolitano) commissionatogli dal rettore del seminario modenese don Alessandro Soli Muratori nel 1838 in occasione del viaggio a Roma per la consacrazione a vescovo di monsignor Luigi Reggianini. All’inizio degli anni Quaranta prepara tra l’altro il Ritratto di Malatesta (Modena, Istituto Venturi) e il suo capolavoro, Il soldato (o guerriero) ferito (Modena, Museo civico d’Arte), il cui modello in gesso porta a termine a fatica per la penuria di mezzi. La statua, ammiratissima nell’ambiente artistico romano, viene tradotta in marmo per incarico del duca Francesco IV: giunta a Modena, è esposta in anteprima nel 1843 all’Accademia Atestina ed elogiata al punto da paragonare Obici a Fidia e a Canova. Rimane invece per sempre incompiuta nel suo studio la Speranza commissionata dal marchese Ala Ponzone: riferisce Campori che agli elogi espressi dal giornale romano “Il Tiberino” si contrappose nel periodico estense “La Voce della Verità” il giudizio severissimo di Marcantonio Parenti che incolpò l’artista “di non essere stato largo di panni”, pertanto la statua poteva essere scambiata per “la Leggerezza, la Spavalderia, la Presunzione o anche la Lusinga”. In compenso, in quegli anni stessi l’artista ottiene un grande successo con la Melanconia che replica in ben sette esemplari; deve far fronte anche a incarichi per ritratti, per soggetti religiosi e monumenti funerari tra cui quello di Suor Rosa Poletti (1844) (Modena, Chiesa delle Domenicane) richiestogli dall’architetto modenese Luigi Poletti attivo all’epoca a Roma. Grazie a lui, che sta progettando il Monumento dell’Immacolata Concezione da erigere in piazza di Spagna in occasione della proclamazione del dogma (1854), realizza la statua posta alla sommità della colonna, il cui esito tuttavia gli procura non poca amarezza per l’eccessiva altezza e l’imperfetta fusione del bronzo. L’artista comunque tocca il vertice del successo con il possente San Giovanni Battista eseguito per la chiesa di S. Maria sopra Minerva (il cui modello in gesso è oggi nella chiesa parrocchiale di Spilamberto), posto nel 1853 a destra dell’altare maggiore in corrispondenza con il Cristo portacroce di Michelangelo. Nonostante il compenso esiguo, vi si impegna con passione: a suo dire quella statua era per lui “questione di vita o di morte”. Realizza inoltre numerosi ritratti tra cui quello del poeta Giuseppe Giusti, dello scultore Pietro Tenerani e di Celestino Cavedoni, nonché rinomati monumenti funerari come quello dei Tittoni Berardi al Verano, dei principi Simonetti Hercolani per la chiesa di S.Maria della Piazza ad Ancona e dei principi Trabia in Santa Zita di Palermo. Negli ultimi anni di vita lo scultore, benché confortato dall’amicizia della famiglia Tittoni, vive appartato e malinconico nell’umile studio-abitazione pieno dei modelli in gesso descritto da Zanfi, fino alla morte nel 1878.
Riferimenti bibliografici: Campori 1865; Campori 1881, pp. 383-413; Campori, Zanfi 1883; Lugli 1978; Martinelli Braglia 1989, pp. 131-143; Moretti 1989, pp. 127-130; Morandi (scheda) in Ferriani 1998, pp. 134-135; Martinelli Braglia 2008; Righi Guerzoni 2008.
(Lidia Righi Guerzoni, 2013)